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E se dovesse ritornare l’incubo inflazione?

Aggiornamento: 10 set 2022

di Emanuele Davide Ruffino e Edmondo Rustico


Che ci sia la possibilità di una ripresa dell’inflazione lo testimoniano le ultime relazioni delle BCE e della Fed: fino a che punto questo costituisca un pericolo non è stato esplicitato da questi massimi organismi della finanza. In passato i costi sostenuti durante un conflitto venivano normalmente pagati con ondate inflattive (secondo Benjamin Disraeli, primo ministro inglese tra il 1868 e il 1880, la più iniqua delle tasse) mentre oggi, per contrastare la pandemia, si è pensato di esasperare il debito pubblico, praticamente senza limiti: la storia dirà quale forma è la più iniqua, ma entrambe le soluzioni non sono esenti da pericolosi rischi.

Chi nasce in Italia è già indebitato per 40.000 Euro: sempre meglio che nascere in un Paese del terzo mondo, dove il problema non è l’indebitamento ma la sopravvivenza. A fronte di tale fardello il neonato italiano dispone di un capitale culturale e di infrastrutture tra i più avanzati al mondo. Il problema è che il debito pro-capite è destinato a crescere (non solo per la crescita del debito, ma anche per la denatalità), mentre cultura e infrastrutture sembrano rimanere al palo. I costi nascosti sono i più esosi

Il debito, costantemente alimentato dallo sbilancio tra le spese dello Stato rispetto alle entrate, finisce per sottrarre risorse alle famiglie e alle imprese. L’andamento del debito pubblico e il benessere degli individui, infatti, non sempre presentano gli effetti prospettati dalle politiche keynesiane, ma, oltre certe soglie, rilevano un andamento inverso, con un incremento delle disuguaglianze. Gli effetti della pioggia di offerta di denaro (quasi un helicopter money), distribuita in tempi rapidi, per contenere gli effetti del coronavirus, sono tali da non permettere una selezione dei beneficiari, avvantaggiando forme malavitose o accrescendo la capacità di accumulo di una parte minoritaria della popolazione. La pandemia ha avvantaggiato, sia pur con un’infinità di eccezioni, i percettori di reddito stabili (pensionati, dipendenti pubblici e privati di aziende consolidate, a scapito delle partite I.V.A.) e i detentori di capitali impiegati in attività remunerative (che hanno approfittato dello schiacciamento dell’inflazione, a scapito del capitale a rischio d’impresa). La risposta a questo sbilanciamento non può più essere ricercata con l’inasprimenti fiscali, demagogicamente apprezzabili, ma di scarsa efficacia (gli inasprimenti fiscali, da soli, provocano solamente un abbattimento delle potenzialità di crescita ed incentivano la delocalizzazione o lo spostamento dei capitali all’estero), ma nella capacità di creare condizioni affinché le energie vitali trovino nella società le possibilità di crescere e svilupparsi. Il mondo occidentale è alla ricerca di un nuovo modo d’interpretare la realtà, ma ciò richiede una presentazione veritiera e tempestiva dei dati e delle informazioni tali da garantire trasparenza ed eticità nei comportamenti. I risultati riportati attualmente sui bilanci assumono quasi un elemento accessorio: la riprova è data dal fatto che la pubblicazione del bilancio o l’annuncio di una ripresa dell’inflazione non condiziona più neanche l’andamento dei titoli in Borsa o l’andamento delle valute (in quanto tale informazione è già stata abbondantemente scontata dal mercato, precedentemente alla loro pubblicazione o perché vi sono altri fattori che determinano l’economia reale). Nuovi scenari tra speranze e illusioni

Con l’inflazione a zero (o in presenza di deflazione), anche i tassi negativi, rappresentano un’alternativa “esplicita” di quella che per anni è stata la situazione dove “l’inflazione risultava superiore ai tassi di rendimento”, ma proprio perché esplicita, può provocare reazioni di sfiducia tra i risparmiatori, inducendoli a forme di trasferimento/espatrio dei capitali o investimenti in materiali preziosi (oro, diamanti etc, per tutelarsi dalla perdita di valore dei tassi negativi o dall’inflazione). L’ipotesi che i detentori di capitali (specie se di modeste dimensioni) si sentano spronati ad avviare nuove iniziative, si scontra però con le condizioni operative (la presenza di tassi negativi induce a ritenere che non esistano condizioni per l’avvio o il potenziamento di imprese bisognose di prestiti). Ogni crisi finanziaria o sanitaria (e le due fattispecie, in caso di epidemie e di epizoozie sono diventate inevitabilmente interconnesse) sancisce l’impossibilità d’illudersi di poter riversare sugli altri i propri deficit, così come in passato è avvenuto con l’inflazione e la svalutazione. La speranza è un valore, l’illusione è la sua negazione: ne consegue che ogni comunità deve individuare quali possono essere le proprie possibilità, quali sono i bisogni prioritari che s’intende perseguire, gerarchizzando le possibilità d’intervento. In un economia cognitiva si concretizza la necessità di prendere coscienza degli effetti che si manifesteranno in futuro a seguito delle decisioni intraprese. Sul fronte finanziario si rileva come la conoscenza dei debiti che l’attuale e le prossime generazioni dovranno sopportare non è più una variabile riservata ai cultori della contabilità pubblica e della scienza delle finanze, ma un problema generale che già condiziona la vita in molti paesi e che, l’inevitabile l’aumento delle spese per sostenere l’economia durante il coronavirus, lasceranno la società con sempre minori possibilità di manovra.


Il risparmiatore, per sfuggire al debito, tenderà a sposare la sua liquidità verso Paesi o imprese considerate solvibili o presunte tali, accentuando il trasferimento di capitali da Paesi a rischio di inflazione e/o svalutazione, verso paesi con debito sovrano garantito, rinunciando a rendimenti superiori per accrescere la possibilità di vedere restituito integro l’investimento: anzi il differenziale dei rendimenti (il famigerato spread), a parità di valuta, è l’iconoclasta espressone del cosiddetto “rischio Paese” o “rischio azienda”. Il trasferire risparmi/capitale/risorse in un altro paese (o semplicemente acquistandone titoli o azioni dal proprio conto-corrente bancario) significa depotenziare la realtà in cui si vive, non solo sottraendone risorse, ma anche per la crescente sfiducia nel sistema (parametro sempre più predittivo dell’andamento del benessere). Gli effetti della delocalizzazione


Se i disastri finanziari nascosti sotto il tappeto dei singoli Stati e di tanti enti pubblici già rischiano di rallentare non solo le possibilità di sviluppo dei medesimi, ma dell’intero sistema, effetti ancor più deleteri si registrano in conseguenza dei comportamenti assunti dalle imprese private la cui delocalizzazione finisce per penalizzare più soggetti. In un’ottica di welfare sociale, una delocalizzazione può essere associata ad un fallimento, non solo perché si sottraggono potenzialità ad un territorio, ma perché rileva l’incapacità di quel contesto a creare e mantenere un clima di fiducia, quale presupposto per la realizzazione di una società a misura d’uomo: più che impedire la delocalizzazione con norme di fatto inapplicabili, l’attenzione si deve concentrare sul modellare in loco condizioni per incentivare le imprese a ritenere opportuno scegliere di rimanere in quel contesto, attraendo semmai altri componenti della filiera produttiva. Il non funzionamento dei meccanismi economico-sociali ricade inevitabilmente su tutta la collettività: il fallimento di alcune banche o imprese può compromettere irrimediabilmente le possibilità di sviluppo di intere aree. Riassume così importanza il ruolo delle funzioni politico-amministrative che devono essere giudicate, nell’immediato, dai suoi componenti costituenti (i cittadini elettori e gli organi di controllo) e, nel lungo periodo, dalla storia che sancisce il successo/sopravvivenza delle soluzioni adottate. Il concentrare l’attenzione solo sulla prossima tornata elettorale riduce le possibilità di una visione prospettica, eludendo l’analisi sui parametri economici che potrebbero influire realmente sulle condizioni di vita e di sviluppo. Occorrerà sempre più definire schemi e termini di raffronto in grado di prevedere la validità delle scelte effettuate, mirando, in particolare, a verificare la sostenibilità delle richieste in rapporto alle disponibilità del sistema, senza gravare di debiti le generazioni future (il vero pericolo delle politiche del welfare).

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