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Dall’antisemitismo on line al rilancio culturale: problema urgente per il Paese

di Luciano Boccalatte |

Domenica 10 gennaio la presentazione “da remoto” – come pandemia ormai obbliga – del libro di Lia Tagliacozzo, “La generazione del deserto”, organizzata dal Gruppo di studi ebraici e dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza, ha subito lo squallido intervento di un gruppetto di neofascisti, che per pochi minuti ha interrotto i relatori con immagini di svastiche e insulti violentemente antisemiti. Prontamente “espulsi” da chi gestiva la piattaforma, l’iniziativa ha potuto concludersi normalmente. Ultima puntata di una serie non inedita: attacchi analoghi sono aumentati nel corso dello scorso anno, come confermava Vittorio Rizzi, Vicecapo della Polizia di Stato, ricordando che nel 2020 i crimini informatici sono aumentati del 34%, e tra essi in buona percentuale offese antisemite e razziste, omofobe o sessiste (citato da Paolo Berizzi su “la Repubblica” del 13 gennaio). Non che siano scomparsi atti “in presenza”, e basti ricordare le scritte antisemite e fascio-naziste vergate circa un anno fa su porte e case di figli e figlie di ex deportate e partigiani a Torino e a Mondovì esattamente dodici mesi fa, ma anch’essi coperti dall’anonimato, quasi che le modalità della rete si siano trasferite nella realtà. Chi, come chi scrive, ha raggiunto i tre quarti di secolo di vita, ricorda le azioni squadristiche di disturbo a comizi o riunioni, o vere aggressioni, ma in quei casi gli autori, per usare un’espressione non troppo elegante, “ci mettevano la faccia”, correndo i relativi rischi. Molto più facile ora nascondersi dietro un falso nome, fornire una email fasulla o usare altri modi, segno di un rapido adattamento di forze intolleranti alle modalità di comunicazione dettate dalla situazione pandemica. Una prima riflessione si presenta: l’infosfera, secondo l’espressione di Luciano Floridi, ha quasi eliminato i confini tra vita reale e vita online, le tecnologie dell’informazione generano sempre più mutazioni strutturali nel nostro ambiente quotidiano, creano e trasformano la nostra realtà, il nostro modo di vita, di relazione con gli altri. A monte un problema, su cui ormai esiste una bibliografia sterminata, emerso sui media di tutto il mondo con evidenza in occasione del “caso Trump” di questi giorni: società private, che ovviamente mirano al maggior profitto possibile, sono di fatto detentrici di un contratto con gli utenti e ne regolano le modalità di comunicazione, entrando su un terreno di estrema delicatezza come quello del rapporto democrazia-informazione-diritti. Temi presenti ormai anche nella letteratura, almeno in quella che affronta la vita ai tempi della rivoluzione digitale come “Il libro dei numeri”, romanzo dell’americano Joshua Cohen. Solo un accenno si può fare alle implicazioni geopolitiche, in un mondo dove faticosamente, e pericolosamente, si stanno creando nuovi assetti densi di incognite. E l’era digitale incontra necessariamente il tema del ruolo della cultura. Se episodi come quello da cui si è partiti ci impongono di considerare come la conoscenza sia tuttora l’arma fondamentale per creare cittadini consapevoli, non si può nascondere l’urgenza “di una cultura rinnovata (adeguata all’epoca che viviamo) e antica, cioè fondata sui valori di fondo della convivenza umana. Che non sono certamente quelli dei demagoghi di turno” come afferma Goffredo Fofi, uomo da sempre controcorrente, nel suo ultimo libro “L’oppio del popolo”. Mi rendo conto di proporre poco più che titoli, ma un ultimo punto va introdotto, più vicino nel concreto alla nostra situazione attuale. È in discussione – e sulle modalità non mi addentro – il programma di impiego dei fondi europei, il cosiddetto Recovery Fund. Per quanto si può intuire, in attesa di conoscere il testo definitivo che verrà presentato a Bruxelles, i fondi destinati alla cultura e alla scuola non saranno in grado non solo di aumentare investimenti mirati, ma di ripristinare gli effetti di decenni di tagli e di recuperare una distanza che ci separa dagli altri paesi europei su molti terreni, dal livello di cultura generale al numero di laureati, dalla conservazione e valorizzazione del patrimonio alla formazione delle future generazioni. Dunque, saremo in grado di aprire una discussione nella “società civile”, per usare un’espressione spesso travisata? Non sarà facile, ma è indispensabile e urgente. Proviamoci.

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