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Coronavirus: il dovere di alcuni riguarda proprio tutti

Aggiornamento: 9 apr 2023

di Davide Rigallo

La prima cosa che la peste recò ai nostri concittadini fu l’esilio. Albert Camus riassume così la condizione degli abitanti di Orano, capoluogo marittimo dell’Algeria nordoccidentale che, nel suo romanzo probabilmente più celebre, “La peste”, immagina colpita da un’imprevedibile e anacronistica pestilenza. Tutte le relazioni umane e tutti i negozi sociali sono improvvisamente sovvertiti dall’irrompere, a un tempo violento e assurdo, del morbo che si credeva estinto. Le reazioni della popolazione mettono in crisi ogni caposaldo convenzionale, civile e religioso, su cui quel consorzio umano si era sviluppato, ora dando corso a comportamenti meschini e aggressivi, ora abbandonandosi alla disperazione. Contro questi atteggiamenti si oppone la lucida razionalità etica incarnata da due personaggi, il medico Rieux e l’ex studente Tarrou, e dalle loro “formazioni sanitarie”.


La Peste di Albert Camus

Le formazioni, scrive Camus, aiutarono i nostri cittadini a penetrare nella peste e li persuasero in parte che, se c’era la malattia, bisognava fare il necessario per combatterla. Siccome la peste, in tal modo, diventava il dovere di alcuni, apparve realmente quello che era, ossia una faccenda di tutti […] Per questo, non c’era che un solo modo: combattere la peste. Questa verità non era ammirevole, ma soltanto logica. A tutta prima, mettere in relazione le parole dello scrittore franco-algerino con l’attuale emergenza italiana del coronavirus può sembrare sproporzionato. Diversamente dalla peste del romanzo, l’emergenza coronavirus non ha infatti nulla di metaforico, ma si sviluppa in una quotidianità ben tangibile, fatta di servizi garantiti, esperienze e competenze sperimentate, strutture comunque funzionanti. L’Italia non è certamente l’Algeria coloniale del dopoguerra, e Codogno non è la Orano del romanzo. Se però ci concentriamo un po’ di più sullo sviluppo di questa emergenza, allora possiamo osservare come, giorno dopo giorno, si insinuino forme e dinamiche che in qualche modo rendono attuali le parole di Camus. Cominciamo dagli aspetti medici. Anche volendo, essi non possono essere confinati a se stessi, come qualcuno auspica: qualsiasi patologia diffusa, qualsiasi azione di cura e di profilassi, si sviluppa nella dimensione sociale. In particolare, negli eventi epidemici, gli aspetti sanitari hanno inevitabilmente ricadute sociali che facilmente possono tradursi in percezioni alterate, paure, comportamenti e atteggiamenti irriflessi. La loro gestione non è certo compito di medici e operatori sanitari, ma di un vasto complesso di attori che va dall’amministrazione pubblica, all’informazione, alle filiere di tutti i servizi dei territorio. Se è sicuramente troppo presto per dare un giudizio su questa gestione, l’impressione è che, ad oggi, la lotta al COVID-19 sia stata sicuramente un dovere di alcuni (in primis, del personale sanitario), ma non una faccenda di tutti.

Contraddizioni ne linguaggio mediatico

Lo spettro degli atteggiamenti a cui abbiamo assistito in questi giorni appare infatti contraddittorio. L’emergenza è stata ora subìta, ora tollerata, ora mal sopportata; spesso è apparsa manipolata da alcuni per trarvi qualche interesse di consenso. Nel linguaggio mediatico, il contagio è stato spesso disumanizzato, in qualche caso associato ad ascrizioni di “colpa” (in un suo titolo di apertura, un quotidiano nazionale ha addirittura evocato la “strage”) e non sono mancati episodi di intolleranza e di razzismo (sinofobico questa volta). Abbiamo assistito a discorsi volti a dimostrare che l’ultimo dei coronavirus non ha comunque origine “etnica” (quasi ci fosse bisogno di precisarlo!); che un’eventuale chiusura delle frontiere non impedirebbe comunque ai virus di circolare; che le quarantene non possono riguardare interi gruppi umani. L’ultima, importante variabile del dibattito corrente riguarda la contrapposizione tra la “tutela della salute” e il “danno economico” che deriverebbe dai provvedimenti di prevenzione. Una contrapposizione che rivela soltanto la poca conoscenza che si ha dei diritti fondamentali della persona e della loro applicazione. In questa diffusa ignoranza, “interessi” e “diritti” sembrano infatti sovrapporsi come fossero termini interscambiabili, del tutti privi dei relativi concetti. In una società molto propensa a rimuovere la presenza della morte e della malattia dal proprio orizzonte, l’emergenza coronavirus ha messo in crisi tutte quelle ritualità di superficie che danno ai più una parvenza di sicurezza. Una verità scientificamente incontrovertibile come quella delle continue modificazioni dei virus è irrotta sulla scena come una tragica assurdità, capace di causare reazioni altrettanto irrazionali. Chi mai avrebbe detto, infatti, che il sistema biologico in cui viviamo si sviluppa seguendo queste dinamiche “assurde”? È su queste sacche di ignoranza purtroppo diffuse che un’informazione e una politica drogate dal consenso traggono il loro alimento maggiore. L’antidoto? Ce lo indica ancora una volta Camus quando definisce logica – e non eroica – la lotta contro la peste: l’unica strada, cioè, che dobbiamo percorrere, anche qualora fossimo soli a farlo.

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