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Acchiappati dal Coronavirus! Breve storia di una fuga non riuscita

Aggiornamento: 2 apr 2023

Mercedes Bresso in dialogo con Claude Raffestin

Quando siamo partiti il 5 gennaio da Venezia, del Covid19 non sapevamo nulla. Probabilmente aveva già iniziato a diffondersi in Cina ma nessuno poteva immaginare come sarebbe cambiato il mondo in poco più di due mesi. La nostra nave era diretta verso l’America Latina e da lì, via il Pacifico e l’Australia, sarebbe arrivata in Asia. Ma pochi giorni dopo la partenza è iniziata una sorta di strana gara fra noi e il virus. Man mano che avanzavamo, leggevamo sui giornali del violento aumento dei casi in Cina, della chiusura di intere città, di province, poi dell’arrivo dell’epidemia in Corea del Sud e di una nave, la Diamond Princess, bloccata in quarantena, con dei casi di contagio a bordo, in Giappone. L’unico giornale che avevamo on Line iniziò a pubblicare su ogni numero una mappa del mondo con dei cerchietti rossi dalle grandezze proporzionali al numero di casi. E si vedevano dapprima tanti pallini rossi su diversi paesi asiatici, che giorno dopo giorno si allargavano, poi l’apparire dei primi piccolissimi pallini in Europa e negli Usa. Noi intanto eravamo in America Latina, dove nessuno parlava del virus e da lì, il 6 febbraio, ci dirigevamo dal Cile verso l’isola di Pasqua. A bordo tutti si chiedevano se saremmo mai andati in Asia, dove l’epidemia cominciava a galoppare. Il 10 febbraio, quando sbarcammo sull’isola delle grandi statue, molti pensavano ancora che l’epidemia fosse un fatto della Cina e dei paesi a lei vicini. E tutti credevamo che per sfuggire al virus sarebbe stato sufficiente tenerci lontani dall’oriente asiatico. Così, quando il 20 febbraio, dopo essere partiti da Bora Bora, il comandante ci convocò per annunciarci un cambio di itinerario, molti già se lo aspettavano. Ci disse che tutte le tappe asiatiche sarebbero state cancellate e che dall’Australia, dove avremmo fatto più scali, la nave si sarebbe diretta verso l’Oceano Indiano, facendo tappa a Mauritius, Madagascar, La Réunion, le Seychelles e le Maldive, per poi raggiungere Colombo e da lì riprendere il vecchio itinerario. In quel momento, sul planisfero del nostro quotidiano, l’Africa orientale e le isole verso le quali saremmo andati risultavano del tutto indenni: cominciava la nostra corsa contro il virus per raggiungere luoghi dove lui non c’era.

Proprio in quei giorni i cerchi rossi iniziavano ad allargarsi in Europa e soprattutto in Italia. Malgrado i dinieghi di Trump e Johnson era ormai da temere che tutta la parte nord del planisfero sarebbe stata progressivamente coinvolta. E sulla nostra nave si continuava a pensare di essere più veloci del virus. Mentre in Italia iniziava l’escalation di misure sempre più radicali ed estese territorialmente, gli altri paesi capivano troppo tardi di essere sulla stessa curva, solo con un po’ di ritardo. È probabilmente la prima volta nella storia che un’epidemia di questa dimensione ha una diffusione spazio-temporale così ampia e così veloce. Quando, il 3 marzo, siamo arrivati a Melbourne, abbiamo scoperto sul solito planisfero che anche in quella città e a Sidney erano apparsi due piccoli puntini rossi. Ma abbiamo pensato: “cosa saranno mai due o tre casi in un intero continente?” Eppure il virus ci aveva raggiunti, anzi ci aveva già sorpassati. Lo abbiamo saputo ufficialmente all’ultima tappa del nostro periplo in Australia, a Perth, quando il capitano ha annunciato che non potevamo scendere a terra perché tutti i porti erano stati chiusi alle navi da crociera. In questi giorni navighiamo nell’oceano indiano verso Mauritius, anche se ormai sappiamo che non potremo scendere in nessuno degli scali previsti. E ignoriamo ancora quando rientreremo in Italia e per quale percorso. Ormai il planisfero non ha praticamente più nessuna zona senza cerchietti rossi. Il virus non solo ci ha acchiappati, ma ha cancellato d’un tratto tutti i nostri programmi, come sta facendo per il mondo intero. A osservare l’evoluzione degli avvenimenti siamo tentati di dire che questa pandemia costituirà un tornante nella storia mondiale. Dobbiamo arrenderci all’evidenza che quasi tutti i paesi sono stati presi alla sprovvista e nessuno sul piano civile disponeva di un piano per affrontare questa catastrofe. In effetti, tutte le misure, sia sul piano sanitario, sia su quello economico, sono state prese per Tatonnement, cioè procedendo un po’ alla cieca, spesso senza neppure imparare un granché da chi si è trovato per caso davanti a noi. Abbiamo imparato a gestire in qualche modo la globalizzazione economica, ma continuiamo a non disporre di un arsenale di strumenti per difenderne gli aspetti positivi a fronte delle chiusura delle frontiere, che è sembrata il solo modo per proteggere la salute dei cittadini. Chiusura che serve a poco sul piano sanitario (tutti gli epidemiologi ci dicono che serve stare chiusi in casa) ma sarà devastante per le nostre economie e potrebbe portarci a mancare di beni essenziali la cui produzione è integrata a livello mondiale. Ci pare che dovremmo tutti lavorare a costruire un vero e proprio arsenale di misure per difenderci dalle inevitabili crisi sanitarie future in modo più rapido e mirato e, al tempo stesso, per garantire anche durante crisi gravi un funzionamento ordinato della nostra economia. Ma su questo argomento torneremo.

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