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4 novembre, festa dell'Unità Nazionale verso la Pace di domani

di Vice



Lo si è detto e lo si sente: oggi è un 4 novembre diverso da quelli vissuti dall’Italia dal Secondo dopoguerra. Il 24 febbraio 2022, il giorno dell’invasione della Russia in Ucraina, infatti, è una data spartiacque che mette sotto una luce diversa la giornata della Forze Armate, traslitterazione delle celebrazioni per la vittoria nella Grande Guerra che ridiede ai confini italiani l’antico tratto geografico.


La guerra in Ucraina è sopra di noi, umanamente ed economicamente, con la sua catastrofe fisica e psichica che ha investito milioni di persone, con le sue quotidiane immagini di distruzione, con la progressiva eliminazione di parole distensive che avrebbero concorso a spingere verso la pace e l’ancora più pericolosa accettazione di un lessico aggressivo che l’Occidente ha coltivato al proprio interno, spesso acriticamente, il cui prezzo è però sostanzialmente pagato dall’Europa.


Non a caso, come l’ombra scespiriana di Banco, le morti di una guerra assurda sembrano volerci ricordare la facilità con cui si è perseguita la logica delle armi e la fragilità intellettuale che fin ha incorniciato la rinuncia alla diplomazia. Si è così lasciato che nello scacchiere internazionale i falchi facessero strame delle colombe, come mai era avvenuto nella storia recente delle relazioni internazionali, in cui si era sempre cercato (e invocato) un bilanciamento tra due o più opzioni.


Dunque, occorrerebbe prendere coscienza che la soluzione delle armi è ad un bivio: o si chiude il più rapidamente possibile questo sanguinoso capitolo, dando voce a negoziati e avvicinamenti, o si rischia di arrivare ad un catastrofe. Comunque. Perché la stessa pace che ne seguirebbe sarebbe inquinata, proprio come ci ricorda il nostro 4 novembre, da rivalse, vendette e risentimenti, pre-condizioni per un’altra guerra, ancora peggiore della precedente. E stavolta, sarà anche difficile riproporre il remake cinematografico di “Vincitori e vinti”, perché tutti saremo dei vinti.


Ed è di grande auspicio, anche ripercorrendo il significato che assume per noi italiani il 4 Novembre, la manifestazione per la Pace e per la messa al bando delle armi nucleari che si svolgerà domani a Roma. Sarà un ritorno in piazza del pacifismo propositivo, dopo mesi di vessazioni e gratuite ironie, in cui qualunque voce dissonante dalla guerra ad oltranza è stata criminalizzata come complicità o intesa con il “nemico”, anziché favorire un percorso alternativo che fosse d’aiuto proprio agli ucraini, sia quelli che vivono sotto il bombardamento russo, sia a quelli costretti ad abbandonare il proprio Paese.

Oggi, è ritorniamo alla nostra storia, la festa del 4 novembre è soprattutto un appuntamento identitario da cui si può criticamente seguire la traiettoria delle trasformazioni politiche e culturali del nostro Paese: dall’esaltazione patriottica, vittimistica e propagandistica per la “vittoria mutilata” dopo gli accordi di Versailles nel 1919, all’uso strumentale per fini eversivi della stessa vittoria mutilata cavallo di battaglia del romantico dannunzianesimo con l’impresa di Fiume, rivisto e caratterizzato in chiave antisociale dalle squadracce fasciste nel biennio 1921-1922, alla liturgia guerriera del Regime mussoliniano degli anni Trenta come proiezione delle ambizioni di Potenza mondiale imperialista fino all’ingresso a pieno titolo nel novero delle nazioni democratiche, ingresso sostenuto da una grande Costituzione che ripudia la guerra, ma figlia di una guerra, quella partigiana.


Fu una guerra divisiva, è vero. Ma non poteva essere altrimenti. In quella temperie non erano previste vie di mezzo e tantomeno vie di fuga: da una parte o dall’altra della barricata, o nero o bianco. La conciliazione ex post, purtroppo non ha favorito gli esiti sperati, né l’elaborazione culturale, prima ancora che storica, di che cosa sia stato il fascismo per l’Italia. Le ragioni sono molteplici e una parte consistente la si deve addebitare anche allo scenario internazionale della Guerra fredda e alla derivazione di un perdonismo facile, non giustificabile nella sua continuità con l’apparato burocratico cresciuto nel Fascismo fa neppure dall’anticomunismo a ventiquattro carati.


Ma ciò non deve provocare censure o biasimo verso chi continua a sostenere i feticci del fascismo o a nutrirsi di nostalgie ostentando o accarezzando i busti di Mussolini, vellicando una storia sepolta con stendardi, gagliardetti, saluti romani a Predappio, armamentario lucidato più da Casa di riposo formato Villa Arzilla, ma storicamente arrugginito, privo di una precisa strategia politica.

A meno che dietro le caricature del Ventennio non vi sia il proposito mirato di voler scardinare la Costituzione e con essa i valori che si perpetuano dal 25 aprile. A quel punto, anche il rifiuto di celebrare la Festa della Liberazione perderebbe il legittimo rispetto, senza censure, che si deve a tutte le opinioni, perché suonerebbe come l'anticamera per negare proprio quella libertà conquistata e ricordata.


Diversa ancora è l’applicazione della violenza che strizza l’occhio al fascismo come prevaricazione quotidiana dei diritti civili, dell’uso ideologico a fini privati, declinato anche sul piano della malavita organizzata e non. Per tutto ciò non c'è spazio nell'Italia democratica. Non c'è mai stato. Ieri contro la "Strategia della tensione", i tentativi di colpo di Stato, contro il terrorismo nero e rosso, contro Cosa Nostra. E oggi, anche per chi volesse proporre il 4 Novembre non a festa dell’unità nazionale, ma a festa della Nazione intesa come vetrina del ritorno al nazionalismo che maschera l’oppressione di altri popoli, aderendo a intese che sono la negazione della visione dei Padri fondatori dell’unità europea.


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