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Yemen, un’altra guerra senza fine

di Germana Tappero Merlo|

Una delle peggiori trappole in diplomazia è fare dichiarazioni senza dare un seguito con azioni utili e concrete. Se poi in ballo ci sono guerre, soprattutto se complesse come quelle attuali, dove ad avere un ruolo tattico importante sono attori non statali, queste azioni utili sono le uniche a consentire un’exit strategy percorribile per rimanere credibili. Altrimenti si peggiora situazioni già gravi, ma soprattutto si perde credito e potere. Ne è una prova quanto accaduto agli Usa e alleati in Afghanistan e di come la decisione americana di ritirarsi dal conflitto, senza aver posto solide basi per formare un governo di pacificazione e di unità nazionale, abbia galvanizzato le forze locali nemiche, nel caso i talebani e altre forze islamiste radicali del Centro Asia. Lo stesso sta accadendo in Yemen, nella remota regione a sud della penisola arabica. L’ennesima catastrofe umanitaria

L’acuirsi negli ultimi mesi della guerra yemenita lunga ormai anni, dagli aspetti di vera catastrofe umanitaria (28 milioni di persone sotto il livello di sussistenza, 3 milioni di sfollati e il 55% di tasso di mortalità infantile, solo nell’ultimo anno), è stato favorito anche dalla dichiarazione dell’amministrazione Biden, nel febbraio scorso, di togliere il sostegno militare alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita che nel 2015 era entrata in quella che era dapprima una guerra civile, a sua volta ingloriosa conseguenza della fallita primavera araba di Sana’a e che, proprio per decisione dei Saud di sostenere il governo yemenita, riconosciuto a livello internazionale e contrapposto ai ribelli sciiti Houthi, sostenuti in seguito dall’Iran, è diventata ben presto guerra regionale. Gli obiettivi degli Houthi sono noti: essere autonomi nella regione da loro controllata, a nord del Paese, quella anche più popolata (70% degli yemeniti) che ingloba l’unica provincia ricca di greggio e gas, quella di Marib, e in cui imporre uno stato teocratico sciita sul modello e con la protezione iraniana. Una prospettiva che non piace ai governanti sunniti della regione e, men che mai, a Israele, tutti timorosi di un ampliamento dell’influenza di Teheran nella Penisola all’imbocco del Mar Rosso. Dal 2015, quindi, con il benestare dell’amministrazione Obama, il regno dei Saud è stato il principale supporto – anche attraverso una pesante campagna aerea transfrontaliera – alle forze governative sunnite contro gli sciiti Houthi, in quello che troppo semplicisticamente è stato ricondotto al classico scontro intra-religioso. La maledizione della posizione strategica: Bab al-Mandeb

In realtà, il conflitto in Yemen, “cuore importante” della regione – secondo la definizione di Robert Kaplan – è da sempre molto altro1 e si sta evidenziando chiaramente in questi ultimi mesi. Perché quella guerra è dovuta soprattutto alla ‘maledizione della geografia’, ossia la strategica posizione del Paese, delle sue isole, in particolare quella di Perim, e dei suoi porti di Aden e Mokhā, in quella che è parte della via della seta cinese delle rotte marittime. In pratica, chi detiene il pieno controllo dei porti yemeniti ha un vantaggio strategico commerciale e militare sull’intero stretto di Bab al-Mandeb, ossia lo stretto che separa lo Yemen e Gibuti, l’Asia dall’Africa, ma soprattutto l’imbocco meridionale del Canale di Suez, con tutto quanto vi transita. Controllare il Bab al-Mandeb è gestire una delle principali arterie della globalizzazione perché collega l’Europa all’Oceano Indiano e all’Africa orientale. Questa è la vera posta in gioco del conflitto in Yemen; ed è la stessa, seppur con tutt’altri aspetti, che sottostà al lungo conflitto in Somalia. Tutto il resto, ossia lo scontro fra sunniti e sciiti, come pure la presenza del terrore qaedista degli al-Shabaab somali, ad esempio, sono solo porzioni di una questione tutta riconducibile al posizionamento geografico strategico. La decisione di Biden di togliere il sostegno all’Arabia Saudita era sostenuta da nobili intenzioni, comprendendo come il conflitto avesse ormai creato una “catastrofe umanitaria e strategica”, per cui il ritiro doveva essere considerato come parte del ripristino dell’enfasi, data dalla sua amministrazione, alla diplomazia, alla democrazia e ai diritti umani. Non da meno, la rimozione di Ansar Allah, o Houthi, dall’elenco delle organizzazioni terroristiche aveva lo scopo di facilitare il dialogo diplomatico fra le parti. Tuttavia, queste decisioni, non riflettendo una lettura attenta delle dinamiche interne e in rapida evoluzione di quella guerra, hanno finito per aggravarla nei toni e aumentare il numero dei soggetti in campo. Questo perché la decisione US è stata letta dagli Houthi come un ritiro diplomatico e tattico statunitense ma militare e strategico saudita e, di conseguenza, come un prodigioso cambiamento del rapporto di forze a proprio favore, finendo per influenzare anche altre dinamiche regionali. In pratica, lo stesso copione visto in Afghanistan con i talebani. Le solite complicità dell’Occidente: armi e sostegno politico

In questa deriva, e di fondo, vi è un concetto tattico tanto semplice quanto devastante, ossia che qualsiasi attore non statale non ha alcun interesse a porre fine alla guerra che sta combattendo, dato che basa i propri progressi proprio sul cambiamento violento dello status quo. Se il nemico si ritira, o gli viene meno un fondamentale supporto esterno, perché mai rinunciare a combattere? Soprattutto se si ha la consapevolezza di essere una pedina importante in uno scenario fra i più strategici della regione mediorientale, ed addirittura africana, com’è appunto lo Yemen. Agli Houthi è infatti chiara la propria valenza strategica e come combattenti-guerriglieri non mancano né la pazienza né la tenacia. Hanno dimostrato, inoltre, di essere attori abbastanza autonomi, seppur beneficiando di appoggi esterni notevoli, come palesato dai ripetuti lanci di missili e droni anche in profondità nel territorio saudita, a cui Riyadh ha risposto con pesanti bombardamenti sui civili yemeniti. Un massacro di cui l’Occidente ha finito per esserne complice, garantendo ai sauditi sia il supporto materiale che quello politico. Sebbene vi siano contatti diplomatici segreti fra sauditi e Houti alla ricerca, appunto, di una exit strategy – con una mediazione dell’Oman – la guerra di fatto continua con altri soggetti pronti ad approfittare del vuoto US-saudita, fra i quali gli Emirati Arabi Uniti, dapprima alleati dei sauditi, ma decisi ora a sottrarre il controllo dei territori meridionali yemeniti, quelli appunto del Marib, proprio al regno dei Saud, con cui, tra l’altro, già da tempo c’è disaccordo all’interno dell’Opec sulle quote di produzione di greggio. A tal fine gli EAU sono giunti a foraggiare ampiamente il movimento separatista del sud Yemen, il Southern Transitional Council, STC, e Marib, ricco bottino conteso, è diventata il teatro di scontri fra Houthi, STC e forze regolari. Gli interessi nell’area di Turchia e Qatar e le presenze terroristiche

Ma gli EAU non sono i soli: non potevano mancare Turchia e Qatar, tutti coinvolti in Yemen. Ankara, decisa a combattere gli Houthi, sostiene seppur con discrezione le forze governative, e i suoi servizi segreti pare stiano reclutando combattenti siriani da inviare in quel conflitto2. Un copione già visto in Libia e che, a quanto pare, piace ad Erdogan perché ha funzionato. Il Qatar, invece, rientrato nelle grazie dei governi regionali dopo le accuse di sostegno al terrorismo internazionale e a troppa vicinanza con l’Iran, pare ricercare una riscossa diplomatica e militare partecipando alla guerra nella coalizione a guida saudita. In pratica, e senza tanto meravigliarsi, il ruolo decisamente attivo degli EAU nel sostenere l’STC ha dato vita a tre guerre all’interno di una, con uno stallo che sembra cambiare solo in peggio. Anche perché la soluzione ‘pacifica’ sarebbe quella di dividere l’intero Yemen in almeno tre zone. Ma non è tutto, perché al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), adattandosi all’evoluzione delle vicende yemenite, continua la sua attività di ‘conquista dei cuori e delle menti’, sebbene indebolita dall’offensiva US con attacchi mirati per mezzo di droni. Non da meno frange legate all’ISIS portano avanti le loro azioni a supporto di loro sponsor interni, perché ciascuno di quei principali attori, nessuno escluso, è diviso in fazioni rivali, le cui motivazioni e lealtà cambiano nel tempo. Comprendere questo complesso panorama può aiutare a spiegare le apparenti contraddizioni in base alle quali gli attori rivali possono allinearsi nell’usare l’ISIS e le sue milizie come proxy strategico. Ancora una volta, quindi, attori non statali sembrano decisi a non mollare la presa e a combattere ad oltranza. E questa è, di fatto, la caratteristica delle guerre moderne, quel contenere al proprio interno differenti soggetti, sovente attori non statali, ognuno con i propri sponsor, ossia aspiranti potenze regionali, pronti a combattere differenti conflitti in quello che sembra un unico, monolitico, grande campo di battaglia. Una sorta di matrioska bellica che era la caratteristica già della guerra siriana e che ora si sta imponendo in varie realtà destabilizzate, dal Vicino Oriente, all’Africa e al Centro Asia. E il conflitto in Yemen, seppur ignorato dai media, è un ulteriore, tragico e sofferto esempio. Le guerre moderne sono ormai puzzle composti da molteplici attori e da interessi complessi, con alleanze a tempo, sovente a geometria variabile che rendono sempre più difficile la comprensione e soprattutto la definizione di una exit strategy, anche solo per una soluzione di tregua. Ecco del perché di in uno stato di conflittualità perenne, a diversi livelli di intensità, di cui abbiamo testimonianza in ampie porzioni geografiche e di cui dovremmo prendere coscienza, ma appaiamo distratti e inavveduti perché quelle guerre sono fuori della nostra confort zone, in quella che è ormai un’esclusiva solo più occidentale.

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