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Una pagina di storia: 24 aprile 1915, il genocidio degli armeni


Nelle narrazioni tradizionali della campagna di deportazione degli armeni, l’evento inaugurale è solitamente datato al 24-25 aprile 1915 (la notte degli sbarchi a Gallipoli), con l’arresto di circa 180 notabili armeni, tutti civili disarmati, a Costantinopoli. La più recente ricerca negli archivi ottomani, tuttavia, indica che la campagna di deportazione in realtà iniziò parecchio settimane prima, con “trasferimenti” mirati di di nazionali armeni da Zeytun a Maras (dove erano iniziate le prime serie insurrezioni armene), ordinati l’8 aprile 1915. (Da Sean McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Einaudi, pag. 239)

Scontri, assalti a fuoco, colpi di mano, all’interno di una ribellione armena che si estendeva sul territorio turco, sullo sfondo della Grande guerra, combattuta su quel teatro dall’Impero russo cui dava manforte l’Impero Britannico. Gli armeni si sollevarono a Van, la città che prende il nome dall’omonimo lago, che rappresentava uno dei principali centri culturali del popolo armeno. All’epoca, era una città interetnica, in cui coabitavano musulmani e armeni. La popolazione armena, sostenuta dalle armi russe che venivano contrabbandate e distribuite segretamente, si sollevò nel marzo del 1915, decisa ad impedire la sua eliminazione fisica, secondo un progetto che risaliva all’inizio del Novecento. Il darwinismo sociale dei “Giovani turchi”

>Era il programma dei “Giovani turchi”, il movimento, ufficialmente noto come Comitato dell’Unione e progresso (İttihat ve Terakki Cemiyeti), che nell’estate del 1908, attraverso la sua ala militare, costrinse il sultano ottomano Abdul Hamid,al ritorno alla costituzione del 1876. L’anno successivo, mentre l’Impero perdeva pezzi a ripetizione, il movimento costrinse il debole Abdul Hamid e cedere il potere al fratello Maometto V. Fu l’inizio di una politica pianificata e strumentale, con il proposito di colpire (sterminare) le minoranze e i popoli europei all’interno dell’Impero turco, che si nutriva di odi e di rancori, nella deliberata ricerca di costruire una popolazione etnicamente omogenea per dare coesione ai valori ottomani e scongiurare il decadimento del potere ottomano. Come è stato osservato, erano pratiche di “darwinismo sociale” che colpì gli armeni con una serie di decreti emanati dal ministro della guerra Ismail Enver, ministro della guerra e uno dei triumviri al potere dal 1914 in Turchia. I decreti di deportazione del Ministro della guerra turco

Enver, dopo la disastrosa battaglia di Sarıkamış, lanciò una campagna di velenoso sospetto contro i combattenti armeni che furono disarmati, smobilitati e sterminati nei campi di lavoro e sepolti in fosse comuni. Un preludio al genocidio che Enver ratificò a colpi di decreti che “spostavano”, palesi deportazioni, gli armeni dai loro territori, sottraendo loro beni in cambio di benefici che si sarebbero rivelati soltanto bugie. Donne, bambini e anziani morirono a centinaia di migliaia nei trasferimenti. Morti cagionate dalla fame, dalla sette, dagli stenti, dalle malattie, dai plotoni di esecuzione. Come ha scritto il già citato McMeekin, “il risultato finale era chiaro: l’estirpazione della popolazione armena dall’Armenia turca, aree dell’Asia minore della Cilicia in cui gli armeni vivevano da secoli”. Il massacro degli armeni continuò fino al 1918. Si parla di almeno 800 mila vittime, ma la cifra, che si ritiene sottostimata, è da sempre oggetto di controversie tra gli storici, alcuni dei quali sostengono che nell’olocausto armeno siano morti oltre 1 milione e 200 mila persone. La Turchia non ha mai ammesso il genocidio armeno.

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