top of page

Un ricordo: Piero Chiara, scrittore antifascista e dissacratore

di Marco Travaglini|


Trentacinque anni fa, il 31 dicembre del 1986, mori a Varese Piero Chiara, scrittore tra i più noti della seconda metà del ‘900 italiano. Aveva 72 anni ed era nato il 23 marzo 1913 a Luino, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Tra le sue opere principali ricordiamo: “La stanza del vescovo”, “Il piatto piange”, “Il cappotto di Astrakan”, “Le corna del diavolo”, “I giovedì della signora Giulia”. Scrittore di successo, i suoi libri videro trasposizioni cinematografiche e televisive.

I suoi racconti e romanzi sono noti ma non tutti sanno che fu anche un atipico antifascista, liberale storico sotto il profilo ideale e politico, con una spiccata vena anticlericale. Nei suoi racconti, spesso ambientati negli anni del ventennio, a cavallo tra le due guerre mondiali, Chiara narra un antifascismo pigro e colto; anche in questo rappresentò una visione originale e molto personale nell’ambito letterario italiano dove, il più delle volte, venne privilegiata una vena antifascista più diretta, militante. Prima di approdare alla narrativa e diventare uno dei maestri “della misura breve”, Chiara lavorò nell’amministrazione della Giustizia come aiutante di cancelleria, assegnato nel 1932 alla pretura di Pontebba e successivamente ad Aidùssina, a ridosso del confine iugoslavo, a Cividale del Friuli per approdare infine alla pretura di Varese. L’Italia, alla metà degli anni ‘30, era sotto il tallone della dittatura fascista e il narratore luinese, a causa di quello spirito aperto e liberale, si era guadagnato una certa fama di antifascista che gli valse l’accusa di essere un “mormoratore”, subendo intimidazioni e vessazioni fino ad essere deferito alla commissione per il confino ed espulso dal partito fascista (al quale era stato iscritto d’autorità in quanto dipendente statale) con grave pregiudizio per la sua carriera tanto che fu “congelato nel grado e nello stipendio”. Il 25 luglio del ’43, alla caduta del fascismo, si prese una piccola rivincita staccando dalle pareti degli uffici del tribunale di Varese i ritratti del Duce, riponendoli nella gabbia degli imputati così da essere esposti al pubblico ludibrio. La gioia durò poco. In breve, nella prima metà di settembre, dopo l’armistizio di Cassibile, la liberazione di Mussolini da parte dei nazisti e la nascita della Repubblica di Salò, l’ipotesi di espatriare verso la vicina Svizzera venne condizionata dal timore di lasciare soli gli anziani genitori. Così descrisse quei giorni: “L‘8 settembre ha sorpreso me come tutti i varesini di allora, in una giornata bellissima di autunno. Ero seduto al caffè e vedevo arrivare degli autocarri militari: chiedevano a noi la strada per la Svizzera. Era una fuga: l’esercito italiano si stava dissolvendo. Venivano mandati a Ponte Tresa, Laveno, Gaggiolo e molti di questi militari trovarono rifugio sul monte San Martino. Mi toccò vedere da Luino le bombe che cadevano sulla vetta del San Martino e polverizzavano l’antica, millenaria chiesetta e snidavano quegli eroici soldati che si erano lasciati assediare sulla cima del monte. Una buona parte riuscì a penetrare in Svizzera: fu la prima colonna che si inoltrò nella nazione neutrale, seguiti da borghesi, in gran parte israeliti, politici, antifascisti e militari sbandati”. Qualche mese più tardi, il 23 gennaio 1944, per sottrarsi a un ordine di arresto emesso tre giorni prima dal Tribunale speciale provinciale di Varese “per atti di ostilità verso il Partito Fascista Repubblicano”, Piero Chiara fu costretto ad attraversare clandestinamente il confine e cercare riparo nella confederazione elvetica. Quel giorno stesso si presentò alle autorità di Lugano che avviarono le pratiche per riconoscergli lo stato di rifugiato politico. Dal verbale di interrogatorio, redatto in francese, Chiara dichiarò di avere sempre nutrito sentimenti antifascisti, affermando che dopo la caduta del fascismo si era impegnato, in quanto cancelliere, a “far sparire dal Tribunale di Giustizia di Varese tutti i ritratti di Mussolini” e di aver preso posizione contro “il giudice Michele Poddighe, membro del Tribunale fascista provinciale”. Pochi giorni dopo, grazie all’intervento del vescovo di Lugano, gli venne riconosciuto lo status di rifugiato dalla Confederazione. Ai primi di febbraio venne trasferito a Lugano e, successivamente, nel campo di Büsserach, nella Svizzera tedesca e il mese successivo in quello di Tramelan, nella Svizzera francese:fu lì che lo raggiunse la notizia della condanna, comminatagli in contumacia dal Tribunale speciale di Varese, a 15 anni di reclusione, “per aver, in epoca successiva al 26 luglio 1943, messo il ritratto del Duce nella gabbia degli imputati del Tribunale di Varese, esponendolo alla berlina, derisione e furore popolare”. Nell’agosto del ‘44, riconosciuto colpevole di aver promosso uno sciopero dalle attività lavorative degli internati, venne assegnato al campo di punizione di Granges-Lens. Nel settembre, scontata la pena, passò nella casa per rifugiati di Loverciano e ottenuta la liberazione, nel febbraio 1945,si recò a Zug, al Knaben-Institut Montana, sostituendo l’amico Giancarlo Vigorelli come insegnante di lettere, ruolo che ricoprì fino alla fine dell’estate del 1945 quando fece ritorno in Italia. Nonostante queste vicissitudini, coerentemente al suo carattere e allo stile narrativo, l’avversione di Piero Chiara al fascismo e a ciò che rappresentò non si espresse mai in un’invettiva forte, diretta, quanto piuttosto in una sottile ironia, dissacratoria, venata da una certa comicità. Un esempio illuminante lo si può trovare nel racconto Il povero Turati, uno dei ventitré che compongono la raccolta “L’uovo al cianuro e altre storie”, scritti da Chiara fra il 1963 e il 1969, apparsi singolarmente in giornali o riviste e successivamente rielaborati come capitoli di un unico romanzo. La vicenda narra di un’adunata nei pressi di Varese per ascoltare il discorso del gerarca Augusto Turati, segretario del Partito Nazionale Fascista in visita nel capoluogo. Il racconto esordisce con la descrizione del clima solenne dell’evento, con il folto pubblico assiepato lungo il pendio erboso del Monte Màrtica (“montagna nuda e liscia come un ginocchio, all’inizio della Valganna”) ai piedi del quale era stato eretto il palco delle autorità. Cosa accadde? “Suonò una squilla e si fece silenzio su tutta la montagna. Era arrivato Turati. Il palco si animò e nel mezzo, isolato, con le mani appoggiate a un drappo di velluto nero, apparve il segretario del Partito. Alzò il braccio nel saluto romano e lo tenne in alto un paio di minuti. Subito scoppiarono le acclamazioni ripercosse dai monti circostanti”. Quando, però, il Turati fu sul punto di iniziare il discorso accadde un sorprendente imprevisto che la felice penna di Chiara descrisse così: “Si udirono improvvisamente delle grida sopra la nostra testa, proprio in vetta alla montagna. Un’anguria era sfuggita di tra le gambe di un camerata e scendeva a grandi balzi in un crescendo di velocità. Qualche coraggioso aveva tentato di fermarla o di deviarla gettandosi sulla sua strada, ma l’anguria era passata come una palla di cannone ed era ormai volata sopra di noi, sfiorando a tratti il terreno e diretta verso il palco. Un urlo la seguiva da tutta la montagna. […] Augusto Turati l’aveva vista. Allontanò il federale che voleva farli scudo col suo petto, e con le mani puntate sul piano dov’era steso il drappo nero, aspettò… Preso l’alzo sull’ultima balza del prato, l’anguria entrò come un tiro di rigore nel palco e andò a colpire nel mezzo la traversa superiore, proprio sopra la testa del segretario del Partito. Crollò un trofeo di bandiere, tremò tutta l’impalcatura, e una doccia di sugo scese sopra il gruppo delle autorità schierate in prima fila. Turati, che stava per riprendere la parola, ne ebbe la maggior parte; e subito si videro i fazzoletti bianchi del federale e del prefetto che lo asciugavano. Fu la prima scossa al regime, il primo colpo andato a segno; benché la stampa non lo registrasse e la storia solo oggi possa metterlo, se non tra i fatti decisivi, almeno tra i presagi sicuri”. Come si è potuto leggere Piero Chiara non concesse nessuna indulgenza all’invettiva applicandosi piuttosto in un esercizio d’ironia pungente al punto da sfociare nello sberleffo sarcastico, senza sottacere un sottile ma fermo giudizio sul fascismo e le sue esaltazioni di virilità maschilista e militaresca che, purtroppo, sono rimaste come delle scorie sotto la superficie della società italiana e tendono, quasi ciclicamente, a riemergere.

2 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page