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Se la classe dirigente “tira a campare”…

di Stefano Marengo|

L’elezione del Presidente della Repubblica si è risolta in un’interpretazione magistrale, da parte della classe politica, del noto detto andreottiano: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. La differenza, rispetto all’originale, è una sola: il “Divo Giulio” aveva il pudore di non vendere come capolavori i compromessi di basso profilo necessari per rimanere politicamente in vita, lui e il suo partito di riferimento; oggi, invece, parlamentari e leader di partit(ini) o celebrano il trionfo di tatticismi che, nella migliore delle ipotesi, consentirà loro di rimanere a galla ancora per un po’. Non esiste probabilmente esemplificazione migliore della “superbia” di cui ha scritto Menandro qualche giorno fa su La Porta di Vetro (in https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2022/01/model_-men01.pdf.). Intendiamoci, la conferma di Mattarella al Quirinale è senza dubbio una notizia positiva per l’Italia. Il problema, semmai, è dato dal contesto in cui la sua rielezione è avvenuta. In altri termini: Mattarella è una scelta di alto valore che tuttavia suggella anche, suo malgrado, la débâcle della politica, l’incapacità di coltivare e proporre visioni e prospettive nuove per il Paese. Naturalmente non tutti i partiti e non tutti i leader escono ugualmente ridimensionati dalla disfida quirinalizia, ma a dominare, a destra come a sinistra, è la legge dell’autoconservazione del potere. Matteo Salvini, il vero sconfitto di questa fase, è apparso sin dall’inizio più preoccupato di rilanciare il proprio ascendente sul centrodestra che non di eleggere il nuovo Capo dello Stato, ma la tattica che ha scelto di seguire non solo lo ha infine costretto ad accettare supinamente il Mattarella bis, ma ha anche disgregato (affermazione di Giorgia Meloni) lo stesso centrodestra. Il suo è stato un esempio da manuale di come non si dovrebbe fare politica. Sul fronte opposto (ma nella stessa maggioranza di governo…), il centrosinistra può ben rivendicare di aver tenuto il punto, confermando Mattarella e polverizzando gli avversari (ma alleati di governo…). Il prezzo da pagare per questa vittoria è però altissimo, con la rielezione, che rimane irrituale, di un Presidente della Repubblica che aveva da tempo dichiarato la propria indisponibilità e, soprattutto, con la promessa implicita di fedeltà incondizionata a un premier e un governo la cui trama progressista non si è ancora manifestata compiutamente, per usare un eufemismo, e non negare loro un residuo di fiducia. Il centrosinistra, cioè, ha scelto di identificarsi con lo status quo, trasmettendo ancora una volta il messaggio che ogni contorsione è utile se consente di conservare le proprie posizioni di potere. Chi ha buona memoria riconoscerà in tutto ciò la trama di un film già visto con il Governo Monti: oggi come allora, l’assenza desolante di una visione e di un programma politico inducono il centrosinistra ad accodarsi agli alfieri del neoliberismo più ortodosso, non senza fare appello, a titolo di giustificazione ideologica spiccia, al “profondo senso di responsabilità” che così si dimostra “di fronte al Paese”. Che la si guardi dal lato degli sconfitti o da quello dei vincitori, questa tornata elettorale presidenziale ci consegna un panorama politico desertificato, in cui la ricerca del potere non poggia su analisi approfondite della società e dei suoi bisogni, né si propone di elaborare risposte a questi bisogni stessi, ma vale di per se stessa. È una deriva il cui sintomo più evidente è un Parlamento che ormai da tempo ha rinunciato al proprio compito di rappresentanza e di proposta per diventare mera camera di ratifica di decisioni prese altrove. L’omaggio vassallatico che in questi giorni i leader di partito si sono affrettati a fornire a Draghi conferma che la situazione non è affatto destinata a cambiare, anzi. Lo svilimento della nostra democrazia, l’erosione e lo svuotamento dei principi su cui si regge sono il conto salatissimo presentato al Paese da una classe dirigente a corto di idee e interessata unicamente alla propria perpetuazione. Una classe dirigente che, appunto, “tira a campare”, nell’irrequieta attesa del prossimo ostacolo da aggirare. Ostacolo che, paradossalmente, servirà a giustificarne per l’ennesima volta l’esistenza.

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