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Scintille separatiste nei Balcani: avvisaglie di un nuovo incendio?

di Germana Tappero Merlo|

Le minacce di maggior indipendenza, se non di vera e propria secessione, urlate da una politica nazionalistica e sovranista di qualsivoglia Paese occidentale, non fanno mai presa presso le massime cariche politiche europee, se non quando si annuncia la creazione di forze armate autonome. Allora sì che scatta l’allarme, soprattutto se arrivano da una nazione, come in queste ultime settimane e ultima della lista, che è la Republika Srpska (RS). Questa entità, a maggioranza serba, dal 1995 con la Federazione di Bosnia-Erzegovina (croata-musulmana) è parte dello stato omonimo (Bosnia-Erzegovina, B.-E.), con capitale Sarajevo, ed è stata una delle protagoniste di quella guerra sanguinaria lunga tre anni (1992-1995), con appendice in Kosovo (1999), che sconquassò l’ex-Jugoslavia, con oltre 100mila morti, sofferenze di milioni di civili, crisi umanitarie e stragi, e che si concluse, a fatica, con gli accordi di Dayton. Il passato recente: assedi, stragi, genocidi, un campionario di disumanità

Fu la guerra dei record: il più lungo assedio di tutto il ‘900, quello di Sarajevo (1426 giorni); il più grande massacro di civili dai tempi dei nazisti, quello di Srebrenica (8mila morti musulmani); una Nato che compie un’azione di guerra ed esegue la prima, massiccia incursione aerea in Europa dal secondo conflitto mondiale; e, per finire, l’avvio della prima indagine del tribunale dell’Aia per genocidio. Proprio quei Balcani che dall’attentato di Sarajevo al genocidio di Srebrenica, sono stati l’alfa e l’omega delle guerre novecentesche in Europa. Quando qualcuno minaccia, quindi, da quella regione, l’Europa non dovrebbe risvegliarsi dal suo torpore, ma essere già vigile e pronta a rispondere. Eppure, come dimostra anche la tensione per i profughi fra Bielorussia e Polonia1, i confini europei orientali, come quelli marittimi meridionali, sembrano essere orpelli, fronzoli del tutto marginali per Bruxelles. La minaccia circa l’istituzione di un nuovo esercito serbo è giunta il 24 ottobre dal leader nazionalista dell’Snsd, Milorad Dodik (62 anni), che vorrebbe la Republika Srpska ben separata istituzionalmente dal resto della Bosnia-Erzegovina. Il motivo scatenante, ultimo per lo meno, è l’introduzione a luglio scorso, da parte del governo centrale di Sarajevo, del reato per chi nega il genocidio di Srebrenica (compiuto nel 1995, da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di B.-E, del generale Ratko Mladic), così come previsto dagli accordi di Dayton, la cui applicazione e realizzazione sono sotto la supervisione dell’Alto Rappresentante UN Christian Schmidt. Le prepotenti reazioni dei negazionisti alla Dodik

Una definizione di reato che, secondo politici nazionalisti e negazionisti serbi del calibro di Dodik, suona come un’ennesima azione di forza e getta in cattiva luce la componente etnica serba, per cui da respingere. Si è trattato, infatti, di altra benzina sul fuoco nei rapporti già tesi fra le tre componenti etniche-religiose della B.-E. Serbo-bosniaci contro bosniaci-musulmani (bosgnacchi) contro croati-bosniaci sono infatti le costanti di rapporti in una pace fredda, pressoché congelata, e impossibilitata a fare passi in avanti. Era prevedibile, quindi, la reazione di politici alla Dodik, già presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina dal 2010 al 2018: era solo questione di tempo. Da quell’emendamento alla legge antinegazionista, quindi, è arrivata la minaccia di ritiro delle proprie forze armate da quelle regolari statali della B.-E., e l’istituzione di proprie forze, così come di magistratura, di Corte costituzionale, di autorità fiscali, intelligence e di forze di sicurezza. Tutto, quindi, totalmente autonomo, in nome di una RS orgogliosamente serba e indipendente. La dichiarazione è stata espressa con toni così perentori da far riemergere lo spettro, in quel territorio, di un esercito serbo, già responsabile dei vecchi massacri della componente musulmana, e da far altresì tremare la cancelleria dell’UE. Di fatto, il rappresentante Usa per i Balcani, Gabriel Escobar, in questi ultimi giorni ha rassicurato che la B.-E. “resterà un Paese sovrano e indipendente”, facendo allontanare il rischio di guerra civile. Ma forze centrifughe e influenze esterne, di fatto, ne stanno minacciando se non l’integrità territoriale, sicuramente ed almeno inizialmente, la sovranità di Sarajevo a favore di Belgrado per il rischio di avvicinamento della RS alla vicina Serbia. Non si tratta di una novità negli argomenti di Dodik (da sempre propugnatore di referendum per la secessione), ma a preoccupare, tardivamente, Bruxelles sono piuttosto i suoi toni di minaccia. Ma è solo retorica? Oppure esiste un vero e proprio rischio? Bruxelles, che fece poco durante la guerra se non per gli aiuti umanitari, con gli Usa di Biden ora tornati ad interessarsi alla penisola balcanica, guarda a quelle realtà come partner strategici. Il sostegno politico ed economico di Russia a Cina

Le minacce di Dodik, e soprattutto le sue ultime frequentazioni, europee (l’ungherese Orban) ed extra UE (il presidente russo Putin), assumono così valenze geopolitiche decisamente pesanti, da non sottovalutare. Bruxelles ha tentato, infatti, di inserire la B.-E. nell’ambito dell’allargamento dell’UE ai Balcani occidentali (Salonicco 2003), ossia l’inizio del tentativo di portare tutti i paesi dell’area all’integrazione europea. Un tentativo che ha subito rallentamenti, sospensioni e soprattutto incomprensioni, perché l’UE poggia il suo allargamento sull’accettazione incondizionata di un’identità europea che, però, di fatto, forze politiche, influenti e presenti in parecchi di quei Stati, non accettano. Far combaciare i loro confini con quelli dell’UE equivale ancora, per costoro, al tradimento di un’identità nazionale ben ancorata a concetti divisivi perché fortemente riferenti alla loro appartenenza etnica o religiosa. Non è un caso che la decisione della UE di far aderire quelle realtà si fonda sul desiderio di stabilizzazione della regione per un suo più rapido progresso, così come, appunto, per il completamento dell’identità europea. Perché ciò che preme Bruxelles era, e rimane, di evitare l’estremizzazione, negativa e competitiva, del fenomeno di “balcanizzazione” di quella regione. Un richiamo per i Balcani occidentali, quindi, all’europeismo contro il rischio, carico di incognite, di un loro smembramento. L’effetto, tuttavia, sembra essere addirittura opposto, ossia che, a causa della reazione di alcune forze politiche interne a quelle nazioni, sia l’Europa a balcanizzarsi. E qui il quadro si fa cupo, per tutta una serie di motivi. A condannare la decisione del reato per i negazionisti di Srebrenica non è stato solo Dodik, ma anche la serba Belgrado, e soprattutto, a sostegno di quest’ultima, la Russia e la Cina, ossia partner economici strategici di B.-E. e della vicina Serbia, tanto che quest’ultima è considerata il cavallo di troia della Cina nella penisola balcanica, con gli investimenti di Pechino (oltre a quelli in Albania, Nord Macedonia e Montenegro) pari a 10 miliardi di dollari, a fronte dei 4 miliardi di Mosca, che però vanta, dal 1 gennaio 2021, l’entrata in attività del suo gasdotto TurkStream, in partnership con la Turchia di Erdogan, che approvvigiona, appunto, la Serbia e la B.-E. E mentre la pandemia ha messo i Balcani in una sala d’attesa indefinita della UE, Russia e Cina sono arrivate con i loro vaccini a riempire quel vuoto e a rinsaldare antiche e nuove alleanze. Mosca, tuttavia, non si ferma al solo business dei suoi idrocarburi e del vaccino Sputnik. La sua influenza è tale che in sede Onu, è riuscita a bloccare l’intervento di Schmidt nel suo rapporto al Consiglio di Sicurezza sulla situazione in B.-E e l’ambasciatore russo a Sarajevo, da voci di osservatori locali, pare sia intervenuto più volte negli affari interni di quella nazione. La Russia di Putin può vantare, inoltre, un deciso vantaggio rispetto alla Cina con i suoi sostanziosi finanziamenti privati e statali proprio alla B.-E. Grazie alla sua vicinanza geografica e linguistica, accanto ai rapporti diplomatici e ai lucrosi affari di oligarchi, il soft power russo opera attraverso centri culturali nelle università, sui media e soprattutto sostenendo gruppi dell’estrema destra radicale, in particolare nella RS. Gruppi come Sveti Georgije Loncari (San Giorgio di Loncari), legato alla controparte in Serbia (Srbska Cast, “Onore serbo”), mentre si fingono Ong umanitarie e godono ampiamente del sostegno russo, non disdegnano di glorificare i loro criminali di guerra, di addestrare militarmente e ideologicamente i loro iscritti (“campi patriottici giovanili”, in Russia e Serbia), celebrando l’etno-nazionalismo, l’anti-occidentalismo e l’intolleranza verso gruppi minoritari, oltre che alla nemica UE. La tossica influenza dell’estremismo di destra russo

Ciò avviene anche on line, su piattaforme come Sputnik e Russia Beyond Serbia, come conviene ormai a forze di radicalizzazione estrema. Ebbene, questa decennale influenza di Mosca, secondo osservatori del luogo, sarebbe all’origine della pericolosa polarizzazione interna alla B.-E., delle esternazioni di Dodik e relativo supporto popolare. Ecco perché se anche dovesse sparire Dodik (che è dato da taluni in decadenza politica e finanziaria), gli sopravvivrebbe l’ideologia secessionista in RS contro la B.-E e portata avanti da gruppi di giovani di quest’estrema destra radicale supportata da Mosca, a cui partecipano funzionari pubblici della RS, così come della Serbia. Questi legami fra gruppi e figure dell’estrema destra russe hanno finito per portare alla ‘russificazione’ di narrazioni etno-nazionaliste serbe nei Balcani occidentali, con relativa mitologizzazione e sacralizzazione dei legami serbo-russi che inquadrano e santificano Putin come ultimo protettore della componente serba nel Balcani. E la sacralità di principi per cui si è disposti a morire per difenderli è la base della radicalizzazione sia religiosa che ideologica, come quella dell’ultradestra filo-russa serba di RS. Nei Balcani occidentali di oggi, tuttavia, questa estremizzazione e un irredentismo mai sopito rischiano di scontrarsi con l’altra radicalità, di colore e origine opposta, quella jihadista, presente nei territori a maggioranza musulmana di B.-E., Kosovo e Albania, potente da anni con i suoi bravi protettori e sponsor esterni come, fra gli altri, gli esponenti della Fratellanza Musulmana turchi2. Basterà condividere un’infrastruttura strategica come il gasdotto Turkstream ad evitare frizioni fra radicalismi estremi filo-Russia e filo-Turchia? Oppure, proprio in virtù di quel progetto, è già stata avviata una spartizione di tutti i Balcani fra questi due player in sfere di influenze di portata strategica regionale e internazionale? Interrogativi, dubbi e paure che affliggono una UE sonnolenta, divisa e monca di una politica estera comune e solida, e che confermano, ancora una volta, l’affermazione di W. Churchill sui Balcani, ossia che “questi popoli producono più storia di quanta ne possano digerire”. _______

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