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Pandemie tra Olimpiadi, guerre e tenuta sociale

di Michele Ruggiero|

Il 12 settembre del 1920, si chiudeva in Belgio, ad Anversa, la VII Olimpiade. Erano trascorsi meno di due anni dal silenzio dei cannoni della Grande Guerra. Fu un grande avvenimento che simboleggiava quasi ecumenicamente il ritorno alla pace, otto anni dopo l’edizione dei Giochi Olimpici vissuti a Stoccolma nel 1912. I membri del Cio avevano privilegiato Anversa, patria d’adozione dell’artista fiammingo Pieter Paul Rubens, per ricordare il sacrificio della città, dal 28 settembre del 1914 bombardata e devastata per giorni dalle artiglierie del Kaiser, infine occupata il 10 ottobre, fino al novembre del 1918. Ma la resistenza di Anversa permise alle forze dell’Intesa di trattenere l’orda tedesca e di rafforzare la linea difensiva a nord di Parigi sottoposta ad una potente offensiva nemica. Un secolo dopo, per rimanere in tema, i Giochi programmati a Tokio dal 24 luglio al 9 agosto scorsi sono stati posticipati di dodici mesi a causa della Covid-19, la cui evoluzione è tuttora un’incognita. Nel 1920, all’opposto, si festeggio per alcuni versi una doppia fine: insieme a quella del conflitto che aveva provocato alcune decine di milioni di morti, l’umanità il mondo si mise dietro di sé anche la seconda ondata della micidiale “Spagnola”, che aveva riempito di croci ogni angolo del pianeta. Per tre anni, l’offensiva pandemica aveva trasformato in tanti lazzaretti città, paesi e villaggi. Ma in quel settembre del 1920 il virus aveva ormai esaurito la sua carica letale e ciò aveva contribuito a ricostruire attorno al messaggio sportivo lo spirito di fratellanza umana, diviso per troppo tempo dai fili spinati delle trincee. Oggi, un nemico invisibile quanto subdolo come la “Spagnola” sta mettendo in ginocchio le manifestazioni sportive e con esse il senso della partecipazione corale. Le differenze sul piano della sicurezza e della prevenzione rispetto allo scorso secolo sono comunque sostanziali e tra passato e presente lo scarto della qualità di vita (igiene, alimentazione, tecnologia, risorse economiche, organizzazione ospedaliera, sviluppo scientifico, livello di collaborazione e informazione tra gli Stati) è siderale. All’opposto, sul piano della tenuta sociale si possono riscontrare singolari e numerose forme di analogia, per esempio, tra i giovani di oggi e quelli di ieri. Un comune denominatore è l’irrequietezza, anche se ha origini diverse. Le giovani generazioni del terzo millennio da troppo tempo pagano lo scotto della precarietà occupazionale, di legami discontinui nati – il più delle volte – da scambi virtuali (le chat usate per ampliare il bacino di conoscenze) piuttosto che da esperienze condivise in cui ci si sceglieva per affinità reali; una precarietà dal raggio sempre più allungato a 360 gradi. E la rabbia di chi si sente escluso e impoverito in senso lato è un potente veicolo di trasmissione del “virus” della destabilizzazione sociale altrettanto mutevole e imprevedibile di un agente virale. Nel 1920, gran parte della gioventù aveva plasmato la propria personalità e il proprio grado di resistenza nelle trincee sostenuta da pochi e precisi obiettivi: sopraffare il nemico, eliminarlo e sopravvivere. Così, quando si chiese ai quei giovani di rientrare alla normalità nella società civile, l’irrequietezza figlia del rischio e del rigetto del perbenismo prese il sopravvento. L’avventura di Gabriele D’Annunzio a Fiume (oggi ricorre il 101° anniversario dell’occupazione della città dalmata da parte dei “legionari” reclutati dal poeta), i reduci (arditi e non) reclutati, egemonizzati e usati come braccio violento dal Fascismo mussoliniano, tra i tanti elementi di rivolta più significativi, divennero la cartina di tornasole del rifiuto preconcetto della società così come la si era conosciuta prima della Grande guerra. Ma, se di per sé un atteggiamento anticonformista può essere di stimolo alle società in crisi, negli anni Venti del Novecento gli effetti furono devastanti con l’avvento di dittature e la creazione di velenosi “virus totalitari”. Un secolo dopo, c’è da domandarsi se non sia anche l’irrequietezza ad alimentare e nutrire corposamente i comportamenti irrazionali di chi scende con estremo livore in piazza a sostegno del negazionismo pandemico (che ha avuto come padre putativo il movimento no-vax), di chi sostiene un astratto manifesto dell’indisciplina rifiutando norme e regole a tutela della salute pubblica, preludio al dileggio verso coloro al contrario le rispettano e pretendono che siano rispettate. Questo scenario, se non si vuole ricadere nei gorghi del passato sotto forme diverse (solo apparentemente meno violente), va contrastato senza compromessi o mediazioni al ribasso. E l’antidoto non può che essere la rigenerazione sociale (e morale) da più parti sollecitata che deve accompagnare a stretto contatto l’impegno economico promesso dal Governo italiano e dall’Europa. Il primato dell’economia, infatti, non è sufficiente a ricostruire il legame reale tra individui, la cui assenza oggi appare tra i vulnus più pericolosi che si insinuano e minano la consistenza del nostro tessuto sociale. Soltanto così ne uscirà fortificato il senso della rappresentanza, il cui peso specifico non passa attraverso i click, i cui limiti sono paurosamente visibili, ma dal pensiero e dalle esperienze che se condivisi creano simboli, scambiabili e soprattutto duraturi.

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