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La salute mentale non è soltanto un problema individuale

di Stefano Marengo|

Secondo i dati diffusi dall’Aifa nel marzo scorso, nel 2020 in Italia il consumo di ansiolitici è cresciuto del 12%. Un incremento che è solo in parte dovuto alle ricadute della pandemia da Covid-19 e va piuttosto inquadrato in un preciso trend storico. Nel 2018, ad esempio, la stessa Agenzia del farmaco stimava per l’anno precedente un aumento dell’8% nell’utilizzo di psicofarmaci per combattere ansia, nevrosi, panico e insonnia. Sempre nel nostro Paese, inoltre, altre ricerche hanno calcolato per il periodo 2000-2015 un incremento delle prescrizioni di antidepressivi di quasi il 50%. L’Italia non è un’eccezione. Nel 2016 l’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2013, quindi in poco più di vent’anni, il numero di persone che, a livello globale, soffrono di depressione o ansia sia cresciuto da circa 400 a circa 600 milioni di individui. Le prescrizioni di farmaci psicotropi hanno visto un andamento analogo. Contestualmente, come hanno rilevato report istituzionali e diverse inchieste giornalistiche, è aumentato in tutto il mondo, pur con notevoli variazioni da paese a paese, l’utilizzo di psicostimolanti, ossia di farmaci capaci di ottimizzare le funzioni cognitive, psicologiche e comportamentali del soggetto, rendendolo più “performante”. A questo aumento vertiginoso del disagio psichico e delle prescrizioni farmaceutiche non ha quasi mai fatto riscontro il miglioramento dei servizi pubblici di salute mentale, anzi proprio in questo ambito, negli ultimi tre decenni, il welfare è stato oggetto di progressiva erosione. Per limitarci al caso italiano, è noto come una grande conquista come la legge 180 del 1978 – la “legge Basaglia” – sia rimasta in larga parte inattuata: alla battaglia (vinta) per la chiusura dei manicomi non ha fatto seguito, nella maggior parte dei casi, l’istituzione di servizi territoriali capaci di intercettare le esigenze di salute dei cittadini. I servizi esistenti, inoltre, risultano cronicamente sottofinanziati, potendo contare soltanto, in media, sul 3,6% delle risorse del Fondo sanitario nazionale a fronte di un fabbisogno stimato di almeno il 5%. Come siamo arrivati a questo punto? La risposta ha a che fare con il contesto ideologico in cui viviamo da ormai quattro decenni e con le strategie di governo dell’esistente che ne sono scaturite. A partire dagli anni Ottanta, epoca della “rivoluzione conservatrice” e della ristrutturazione del capitalismo in chiave neoliberista, abbiamo assistito a un’ondata di privatizzazioni che non ha riguardato soltanto i servizi pubblici, ma, in un senso più che metaforico, l’intera organizzazione del nostro vivere sociale e la definizione stessa dell’identità personale. Il primo ministro britannico di quell’epoca, Margaret Thatcher, colse perfettamente il carattere di questa trasformazione affermando che “la società non esiste, esistono solo gli individui”. Poche parole che, nella loro brutalità, hanno la virtù di essere molto chiare. Nel nostro caso, esse significano che sarà perfettamente inutile interrogarsi sulle cause sociali, e quindi politiche, delle condizioni individuali, e questo perché, in ultima istanza, le responsabilità dei destini personali saranno sempre, a loro volta, esclusivamente personali. Così, ad esempio, una persona che vive in povertà dovrà imputare la propria condizione non a un sistema socioeconomico che produce ingiustizie, ma solo e unicamente a se stesso, alla propria incapacità di spuntarla in un contesto economico concorrenziale che vede ogni individuo lottare per i propri interessi. Così è per la salute mentale. Se la società non esiste, infatti, non esisteranno neanche determinanti sociali del disagio psichico. Tutto andrà ricondotto al privato, all’individuale. Una persona depressa, allora, non soffrirà a causa delle privazioni materiali e simboliche a cui lo costringe il proprio contesto di vita; il suo malessere, piuttosto, sarà l’espressione patologica della sua inadeguatezza a vivere in quel contesto, che per parte sua è presentato come neutrale dal punto di vista dei valori e dei fini (la visione del mondo neoliberista, con il suo individualismo parossistico e la sua pulsione all’ipercompetizione, viene infatti naturalizzata, ossia (im)posta come unica realtà possibile). Ma se le ragioni della sofferenza mentale sono unicamente individuali, allora diventa possibile una seconda riduzione, questa volta alla biochimica del cervello. La mia sofferenza, tradotta in inadeguatezza, diventa infine mera disfunzionalità organica. Ecco quindi che si può dare il via libera all’uso, e all’abuso, dei farmaci. Una pillola sarà sufficiente a rendere il mio cervello più funzionale e la mia personalità più adeguata a stare al mondo, a competere nella lotta per l’esistenza a cui siamo chiamati dall’inscalfibile realtà del libero mercato. Anzi, visto che la lotta è davvero spietata, qualche farmaco potrà sicuramente aiutarmi a potenziare le mie virtù, a rimanere vigile e produttivo al di là delle mie forze, perché – si sa – il mercato non dorme mai, e ogni minima distrazione, ogni minuto di ozio che vorrò concedermi mi condurrà verso un inesorabile fallimento. È l’apoteosi dell’individuo-impresa, dell’esistenza intesa come “capitale umano” di cui si sono fatti profeti tutti i grandi ideologi neoliberali, da Friedrich von Hayek a Milton Friedman a Gary Becker. Ciò che questi sacerdoti del libero mercato non capirono (o non volevano capire) – e, viste le categorie che impiegavano, non sarebbero mai stati in grado di capire – è che il neoliberismo realizzato avrebbe prodotto una crescita esponenziale del malessere e della patologizzazione. È la storia della nostra quotidianità: siamo costantemente iperconnessi nell’ipercompetizione globale, le nostre vite, in ossequio alle esigenze dei mercati, sono sempre più atomizzate e precarie (lavorativamente ed esistenzialmente), il futuro ci viene incontro come minacciosa incertezza e il welfare (istituzionale ed informale) a cui un tempo potevamo aggrapparci si sgretola ogni giorno di più. Il vero carattere perverso del sistema sta nel fatto che, quanto più cerchiamo di adeguarci alle sue richieste, di avere successo nella lotta per l’esistenza, o quantomeno di stare al passo, tanto più aumenta il nostro stress e il nostro disagio. In altri termini, siamo dominati da un’ideologia che allude alla piena realizzazione dell’individuo, ma che così facendo rivolge ai soggetti imperativi tanto gravosi da condurre, infine, alla frustrazione cronica del sé. È chiaro che da questo circolo vizioso si esce solo infrangendo il grande tabù, ossia ammettendo che la società esiste e il modo in cui è organizzata è determinante per il nostro benessere. La nostra salute mentale non è soltanto una questione di biochimica. Questa constatazione potrà sembrare piuttosto banale (in effetti lo è), ma allora la domanda da porsi è la seguente: come mai da decenni essa fatica a produrre effetti di realtà? Perché la società continua a essere governata e organizzata come se proprio la dimensione sociale non esistesse? La risposta è che l’ideologia neoliberista non è volta soltanto all’iperproduzione, ma anche, e innanzitutto, alla perenne riproduzione della realtà in cui essa è egemone. In questo quadro, la denegazione della dimensione sociale è volta a rendere impossibile in partenza ogni critica dell’esistente e la conseguente elaborazione di nuovi modelli di governo e organizzazione della società. There is no alternative, diceva ancora Thatcher, concetto riproposto in un famoso libro biografico del 2008 scritto da Claire Berlinski. Non c’è alternativa: ecco l’essenza di ciò che Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”. Se così stanno le cose, è evidente che l’unica possibilità per uscire dal vicolo cieco in cui ci troviamo passa per il taglio del nodo gordiano della denegazione ideologica neoliberista. “La società esiste ed è determinante per la vita degli individui”, potremmo dire ribaltando punto su punto lo slogan thatcheriano. Nel nostro caso: “la società esiste e il modo in cui è organizzata e governata è determinante per il benessere psichico degli individui”. Ma questa affermazione non deve essere confinata del cielo delle verità astratte. Essa, al contrario, deve diventare la premessa di un nuovo engagement politico. La salute mentale va sottratta all’angustia del privato e integralmente ripoliticizzata, traducendo frustrazioni e sofferenze in altrettanti capi di imputazione a carico del paradigma socioeconomico tardocapitalista, dei suoi miti e dei suoi feticci. Solo intraprendendo tale percorso saremo in grado, un giorno, di costruire un’alternativa a questa società malata.

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