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La Nazionale fuori dai Mondiali non deve stupire

di Michele Ruggiero|

Giovedì pomeriggio, Paulo Dybala, oramai un ex della Juventus, anche se lo si considerava soltanto l’estate scorsa uno dei pilastri per la ricostruzione delle ambizioni bianconere, è stato ascoltato negli uffici della Procura di Torino per l’inchiesta “Prisma” su possibili falsi in bilancio della società calcistica. Poche ore dopo, il Paese calcistico si (ri)scopriva deluso e mortificato dal saluto della nazionale di Roberto Mancini ai prossimi Campionati del mondo che si disputeranno a dicembre in Qatar. La sconfitta a Palermo contro la Macedonia del Nord, infatti, si è rivelata il punto d’impatto imprevisto e scioccante di una parabola che ha visto gli azzurri progressivamente trasfigurarsi da Londra, dalla cavalcata vittoriosa agli Europei, mesi in cui di partita in partita la nazionale ha smarrito la capacità di imporre il suo gioco agli avversari. Naturalmente i due episodi sono asimmetrici. Ma è altrettanto innegabile che vi siano alcuni punti di contatto per spiegare sia la decadenza economica e, in alcuni casi, morale delle nostre società calcistiche, sia la decadenza della qualità del nostro calcio, il cui grado di caduta si misura sui rettangoli di gioco internazionali. Che il pallone italiano sia sgonfio, per ritornare a una metafora di alcuni decenni fa, non è una novità. Ma non lo è per caso. Se non rimbalza, ma si affloscia a terra e rotola scombinato, non è a causa di un maleficio o di una cospirazione mondiale di concorrenti invidiosi. Anzi. In un calcio prettamente mercantile, in cui prevale lo show business, l’assenza di uno storico e fondativo primattore, il cui credito si misura dal potenziale gettito di abbonamenti televisivi, è una perdita secca oltre a tutte le implicazioni sul piano dell’informazione, della pubblicità, e della stessa politica sportiva. Nessuna congiura, dunque, il calcio italiana sa farsi male da sé con una capacità di autolesionismo e masochismo per nulla inferiore allo straordinario Tafazzi, la famosa macchietta che si puniva con pesanti colpi ai cabbasisi. Il movimento di vertice (le società) è fermo e dal momento che all’estero almeno si cammina, la distanza tra noi e gli altri si allunga. La cosa non stupisce. La gestione degli stessi campionati si basa su un gigantesco inganno: quello che dal numero di squadre partecipanti si misura la salute del nostro calcio. In realtà, è esattamente l’opposto. Serie A e B, da cui discende il resto, sono tornei dopati. Lo sono per l’affollamento di squadre e per l’insensato meccanismo di promozioni e retrocessioni che risponde unicamente al proposito di aumentare il numero di partite nel “sacro” nome dei bilanci. Eppure, è proprio scorrendo i bilanci delle società che si rivela l’assurdità del meccanismo che si trascina dietro, in primo luogo, l’infoltimento delle rose di calciatori. Un’esigenza oggettiva per sostenere la lunghezza e l’intensità della stagione che però non è a costo zero per le società, strette nella morsa dell’inevitabile sovraccarico di costi e della perdita di potere contrattuale con i procuratori dei calciatori che per la dilatazione della domanda possono spingere sempre più verso l’alto gli ingaggi dei loro assistiti, indipendente dal loro reale valore. Di qui, non deve stupire, con un preciso richiamo a sopra, se la qualità in caduta libera del nostro calcio. In questa corsa all’indebitamento non deve stupire, di conseguenza, se le società sono attratte all’imbellimento dei bilanci con l’artificio contabile delle plus valenze. Gioco antico, tanto stupido nella sua riproposizione quanto efficace se è ancora ritenuta la carta migliore per truccare i conti, nel totale spregio delle regole e a rischio di inchieste giudiziarie. Tra le prime, che concorsero a rendere famigliare il termine plus valenza nel calcio, fu il crollo del castello di carta dell’allora presidente granata Gian Mauro Borsano. Indagato, processato e condannato per alcuni crack finanziari nella prima metà degli anni Novanta, Borsano ha legato il suo nome a una plus valenza diventata mitica: quella del cartellino di un finto giocatore, passato alla cronaca giudiziaria come il caso Palestro. Ancora. Non deve stupire se la perversità del sistema reclama sempre più vittime sacrificali, cioè quei club che in una o due stagioni al vertice bruciano interi patrimoni, che non sono soltanto economici. Con i soldi, o con la repentina caduta in serie inferiori o addirittura con il fallimento, finiscono anche storie personali e collettive, e fitte reti di relazioni sportive con il territorio. La scomparsa di una società medio-piccola, infatti, produce un effetto domino che non spegne soltanto la sorgente del tifo con le sue emozioni e le sue passioni diffuse del pathos calcistico, ma che si abbatte anche sull’intera filiera calcistica che ruota attorno a quella stessa società compromessa. È uno tsunami che travolge le società minori, dilettantistiche, che dai vivai, insieme ai ritorni economici, traggono l’entusiasmo del territorio, i sogni e le speranze di calciatori in erba, l’impegno delle famiglie, il sacrificio di centinaia e centinaia di istruttori di calcio e, non secondario, la disponibilità di quei mecenati, ai più sconosciuti, di cui è ricca la provincia italiana, che supportano i costi di quelle attività. La disaffezione, questa sì, si misura con i numeri e con lo svuotamento dei nostri vivai favorito da club che privilegiano calciatori stranieri, mentre quelli italiani o scaldano le panchine o le poltroncine delle tribune. Una questione aperta: la madre di tutte le questioni, che apre a sua volta una finestra doverosa anche sulla politica della Federcalcio. Non deve stupire allora se presidenti e manager delle società sono chiamati a rispondere alle domande delle Procure e se il Paese, come i suoi calciatori, si guarderà i Mondiali dalla sua personalissima poltroncina.

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