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L’ospedale oncologico di Zenica:<br> la solidarietà del Piemonte alla Bosnia

di Marco Travaglini |

“Provate a immaginare cosa voglia dire veder arrivare amici che ti aiutano a guarire, che t’istruiscono su come proteggerti. Se anche con questo progetto aves­simo salvato una sola vita, il suo scopo sarebbe stato già soddisfacente. Invece parliamo di centinaia e centinaia di donne curate e salvate, oltre a quelle che, grazie a un sistema integrato di osservazione, cura e trattamento, saranno salvate in futuro”. Così scriveva qualche tempo fa Azra Nuhefendić, giornalista di origine bosniaca che da più di vent’anni vive e lavora a Trieste. La vicenda a cui si riferiva è di quelle importanti, che contano davvero nella difficilissima e quotidiana battaglia contro tumori e inquinamento a Zenica, nel lungo e complicato dopoguerra della Bosnia. Il conflitto che ha insanguinato il cuore dei Balcani è finito esattamente 25 anni fa. Nel novembre del 1995, nella base aerea statunitense “Wright-Patterson” di Dayton, nello stato dell’Ohio, venivano discusse le intese che sancirono ufficialmente la fine del conflitto in Bosnia Ersegovina. L’accordo finale venne in seguito firmato il 14 dicembre e iniziò quella che il presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegović definì “la terribile pace”. Quella che seguì nel Kosovo, tra il febbraio del 1998 e il giugno del 1999, rappresentò l’ultima dolorosa propaggine, il bagliore violento con il quale si chiuse in Europa il “secolo breve” con le sue guerre, i genocidi e gli orrori. Le conseguenze sono tutt’ora misurabili in termini di distruzioni, povertà, instabilità, mal sopito odio. E condizioni sociali e sanitarie drammaticamente precarie. Il “lascito” delle guerre è un conto da pagare che non si estinguerà per generazioni. Accanto alle storie dolorose ci sono anche episodi e vicende che vale la pena raccontare. Azra Nuhefendić si riferiva ad una di queste che, tra l’altro, ci riguarda da vicino. Sono molti i protagonisti di questa sto­ria “corale”, iniziata subito dopo la fine della guerra in Bosnia Erzegovina (1992–1995) e ancora non del tutto conclusa. Una storia d’impegno e solidarietà concreta che ha visto protagonisti donne e di uomini che hanno investito una parte della loro vita per realizzare un desiderio di sviluppo equo. Una realtà che ho potuto conoscere da vicino. Anni fa sono stato a Zenica, la quarta città più grande della Bosnia, capoluogo del cantone di Zenica-Doboj. Si trova circa 70 km a nord di Sarajevo ed è circondata da colline e montagne, mentre la Bosna, il fiume che dà il nome alla nazione, l’attraversa per intero. Lì era stato avviato un piano sanitario, partendo da una piccola località – Breza – per estenderlo a tutto il territorio del cantone, che prevedeva un programma di screening dei tumori femminili al collo dell’utero e l’istituzione di un Polo Oncologico presso l’ospedale del capoluogo, grazie all’aiuto e alle competenze della Regione Piemonte e della Rete Oncologica che ha sede alle Molinette, in corso Bramante a Torino, e all’intervento delle Fondazioni torinesi. Un progetto importante perché a Zenica (circa 115 mila abitanti) e nel suo cantone (oltre 700 mila) non esistevano nessuna indagine epidemiologica, nessun intervento preventivo per i tumori e nessuna struttura ospedaliera che potesse offrire una cura di contrasto alle neoplasie in regime di day hospital. La guerra aveva consegnato solo rovine e lutti. Per curarsi (chi poteva economicamente permetterselo, ovviamente) occorreva andare a Sarajevo o a Zagabria, in Croazia. Così, con un lungo e paziente lavoro, nel maggio del 2008, è stato inaugurato il Polo oncologico dell’ospedale cantonale di Zenica, come logica continuazione dell’esperienza pilota di screening oncologico avviata anni prima nel Comune di Breza e nel Cantone. Un progetto che ha permesso la totale ristrutturazione di un’ala dell’edificio della casa di cura per ospitare il reparto di oncologia e lo svolgimento delle attività di formazione in Serbia, a Belgrado, e in Italia, a Torino, per i medici e per gli infermieri. Oggi l’ospedale cantonale di Zenica, grazie a questo lavoro, alle verifiche ed alla progettazione di percorsi diagnostico-terapeutici svoltisi in questi anni, può disporre di un servizio di oncologia provvisto di posti letto di ricovero ordinario, di day hospital e di spazi dedicati all’attività ambulatoriale. E siccome da cosa nasce cosa, è stata avviata la nuova anatomia patologica, rinnovata nei locali e nelle attrezzature, ed è entrata in funzione la radioterapia. Un’importante e insperata opportunità di avere una possibilità di cura contro i tumori per i cittadini di una delle città più inquinate e a rischio sociale dell’intero Paese. Su questi progetti ha lavorato molto anche la cooperazione decentrata dei nostri connazionali. Tra i principali protagonisti figura RE.TE, una Ong italiana da trent’anni impegnata in un percorso che accompagna i processi di miglioramento della qualità della vita delle comunità in Africa, America Latina, Balcani per restituire dignità a quella parte di popolazione che vede negati i propri diritti al cibo, all’istruzione, alla salute, a un lavoro degno, alla terra. Il lavoro prezioso di questi “costruttori di ponti” ha legato la comunità piemontese a quella del Cantone bosniaco-erzegovese di Zenica-Doboj dimostrando come nascono, prendono avvio, si evolvono e giungono a felice compimento i buoni progetti di cooperazione internazionale. Un esempio positivo di contrasto al problema di fondo, all’eredità “nera” della guerra nei Balcani che ha prodotto un “buco nell’anima”: il disagio e le depressioni, i suicidi, il diabete e il “male oscuro” del cancro, originato dalla pessima alimentazione, dall’uranio impoverito dei proiettili che anche in Bosnia sono stati sparati. Una terribile eredità che pesa come un macigno. Un impegno generoso che lascia intravedere una speranza.

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