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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Madre di tutte le riforme o matrigna della democrazia?

Aggiornamento: 11 feb

di Giancarlo Rapetti*


Al Senato è in corso l’iter del disegno di legge (ddl) Casellati (Atto Senato n. 935), noto come premierato all’italiana, e come “madre di tutte le riforme”. secondo la definizione offerta da Palazzo Chigi, dalla presidente Giorgia Meloni. E’ esaminato congiuntamente con analoga proposta presentata da Renzi (Atto Senato n. 830), perché i due testi trattano la stessa materia e sono anche largamente convergenti.

Il testo ufficiale del Ddl Casellati non presenta novità rispetto al comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio del 3 novembre, che riassumeva così la proposta:

Punto 1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto a suffragio universale con apposita votazione che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere, mediante una medesima scheda.

Punto 2. La durata dell’incarico del Presidente del Consiglio è di cinque anni (salvo quanto detto al punto 3).

Punto 3. Il Presidente del Consiglio dei Ministri in carica può essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza. L’eventuale cessazione del mandato del sostituto così individuato determina lo scioglimento delle Camere.

Punto 4. E’ affidata alla legge la determinazione di un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55 per cento dei seggi parlamentari.

Punto 5. Sono cancellati i senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica (precisando che i senatori a vita già nominati restano comunque in carica).

Una immediata osservazione: il punto 3 è un pasticcio auto contraddittorio, ed è opinione comune che sarà espunto facilmente a fronte di un allargamento del consenso parlamentare. Non sposta comunque nulla rispetto al core business della riforma, come si evince dalla relazione di presentazione che enfatizza tre obiettivi:

o  superare l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze;

o introdurre un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere;

o introdurre un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio la maggioranza dei seggi parlamentari.


Furbizie all'italiana

A sostegno del progetto, sono stati addotti anche argomenti di tipo economico, affermando che la stabilità del governo vale punti di PIL: questo è un tipico esempio di quella tecnica propagandistica detta disinformazione, basata sul fatto che si parte da pure asserzioni (o anche da affermazioni in sé vere) per usarle in modo distorto e capzioso allo scopo di dimostrare la propria tesi. In questo caso, il trucco sta nella parola stabilità, usata distortamente. La stabilità che fa bene all’economia è quella del sistema paese, ed è formata da leggi chiare e stabili nel tempo, giustizia civile e penale efficiente, burocrazia rigorosa, ma veloce, condizioni di sicurezza per tutti, equilibrio e coesione sociale; insomma una democrazia funzionante, senza tentazioni autoritarie. A riprova, nella classifica dei paesi per PIL pro-capite nel mondo, nei primi dieci posti ci sono otto democrazie parlamentari e gli Stati Uniti d’America, che hanno l’elezione diretta del Presidente, ma accanto ad un Parlamento fortissimo. Unica eccezione il Qatar, la cui ricchezza non dipende dal regime, ma dal petrolio su cui è seduto.

La prima obiezione fatta al progetto è molto pratica: il regime proposto esisterebbe, se fosse approvato, solo in Italia. Siamo più furbi di tutti gli altri? Chissà. Si dice, allo scopo di non presentarsi come l’unica eccezione, che un esperimento di premierato fu fatto in Israele, salvo poi ritornare al modello parlamentare puro. Non è esatto: il sistema applicato in Israele dal 1996 al 2001 prevedeva l’elezione diretta del premier, ma anche l’elezione indipendente del Parlamento, su di una diversa scheda, con metodo proporzionale, senza nessun vincolo tra i due voti.

Il Senato ha effettuato molte audizioni di esperti, prima di passare all’esame del provvedimento. Avrebbe potuto sentirne solo uno, un certo Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, noto semplicemente come Montesquieu. Non c’è bisogno di evocarlo con una seduta spiritica. Basta rileggere De l’Esprit des Loix. Oppure avrebbe potuto ascoltare l‘interpretazione autentica del progetto da parte di Giorgia Meloni durante la conferenza stampa del 4 gennaio scorso: “Il popolo sceglie un leader e un programma e dopo cinque anni il popolo decide se confermare o meno la fiducia“. Per chi non avesse ancora capito, Mario Sechi, direttore di Libero, portavoce di fatto, anche se non più di diritto, di Palazzo Chigi, abilissimo comunicatore, ha ribadito il concetto, aggiungendo implicitamente che, acquisito il risultato elettorale, non c’è più niente da discutere.


Le abituali "consonanze" dottrinali dell'Accademia

Gli esperti auditi dal Senato hanno invece fatto molte critiche, ma la maggior parte sono critiche “costruttive”, facendo rilevare le contraddizioni intrinseche, le debolezze, le incompletezze del progetto governativo; con il che ammettendo implicitamente che un intervento sulla struttura di fondo della Costituzione è necessario, ma andrebbe fatto meglio. E’ strano questo atteggiamento dei professori universitari? Direi di no. Raramente l’Accademia si schiera contro il potere, e d’altra parte non è suo compito. Si limita a consigliarlo, a correggerlo, a limitare i danni più gravi. Inoltre, come “la ragazza di prima classe innamorata del proprio cappello” (cantata da De Gregori in Titanic), gli accademici sono così affezionati alle proprie elaborazioni dottrinali, spesso di alto livello culturale, da trascurane gli effetti sul mondo reale. Per rendere meglio l’idea, un ricordo degli anni ’60: Mario Allara, Magnifico Rettore dell’Università di Torino e cattedratico di Istituzioni di Diritto privato, aveva elaborato una interessante teoria del diritto civile basata sul concetto di “complesso di doveri”, una costruzione originale ed elegante, sulla quale era basato il corso da lui tenuto. Ma la sofisticata dottrina era lontana parente del diritto civile applicato nei contratti e nei tribunali.

Tra i professori che hanno espresso considerazioni sul progetto del governo, Stefano Ceccanti ha anche prodotto un articolato alternativo. Con tutto il dovuto rispetto, un bel pasticcio: per distinguersi, non parla esplicitamente di elezione diretta del premier, ma il resto c’è tutto: candidato premier e liste collegate sulla stessa scheda e premio abnorme di maggioranza, solo temperato da eventuale turno di ballottaggio.

Al di là delle acrobazie, dei distinguo, dei dettagli, nel merito la proposta del Governo cancella in un colpo solo i ruoli di Parlamento e Presidente della Repubblica e, quindi, abolisce la distinzione tra potere esecutivo e potere legislativo, alla base delle democrazie moderne. Naturalmente i proponenti lo negano, con una assertività beffarda che fa impressione.


Presidenza della Repubblica svuotata

Sul Presidente della Repubblica dicono che gli articoli concernenti i suoi poteri non sono toccati. Gli articoli no, ma i poteri sì. Il Presidente della Repubblica, a Costituzione vigente, sostanzialmente fa tre cose: incarica il Presidente del Consiglio e nomina il Governo; scioglie le Camere, nel caso in cui non siano in grado di produrre una maggioranza di fiducia ad un Governo; nomina i Senatori a vita. Ora, nel Ddl Casellati: i Senatori a vita sono aboliti, il Presidente del Consiglio è eletto dal popolo, le Camere si sciolgono per caduta del Capo del Governo. Il Presidente della Repubblica diventa uno degli arazzi del Quirinale.

Per quanto riguarda il Parlamento è ancora peggio: essendo le due elezioni collegate, sulla stessa scheda, Presidente del Consiglio e Parlamento simul stabunt, simul cadent. Detto in italiano: la maggioranza parlamentare può sfiduciare il Presidente del Consiglio solo sfiduciando sé stessa, cioè provocando lo scioglimento del Parlamento. Si innesca così un gioco di ricatti reciproci, vediamo chi ha più paura di andare a casa e cede prima.

In più c’è il premio di maggioranza, congegnato per dare la maggioranza assoluta a chi ha solo la maggioranza relativa. Gioverà ricordare che la famosa Legge truffa del 1953 garantiva un cospicuo premio in seggi parlamentari al partito o alla coalizione che avesse avuto la maggioranza assoluta dei voti; era molto meno truffa delle leggi elettorali a cui ci siamo malamente assuefatti nella Seconda Repubblica e che nel Ddl Casellati raggiunge l’apoteosi. La legge truffa non piacque agli elettori che diedero alla DC e allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che l’avevano voluta, una importante maggioranza relativa (il 40%), ma lontana dal 48% di cinque anni prima, le elezioni del fatidico 1948: la coalizione messa in piedi dalla stessa DC non raggiunse, anche se per poco, la maggioranza assoluta, e quindi la legge truffa non scattò. Con il che arriviamo al punto nodale, che sembra snobbato dal dibattito, tenue, in corso.


Il popolo schiacciato dal destino dei governi

Il Governo è espressione della maggioranza, il Parlamento deve dare rappresentanza a tutto il popolo, a tutte le opinioni, a tutti i territori. Dicendo tutti, si intende in pratica quelli che raggiungano una massa critica significativa. Ogni cittadino deve sentirsi rappresentato, anche se con maggiore o minore intensità, ma nessuno può essere del tutto tagliato fuori. Da questo punto di vista i premi di maggioranza sono una aberrazione, perché ridimensionano o cancellano la rappresentanza di vaste parti del popolo. E la votazione collegata di leader e parlamento, subordinando il secondo al primo, cancella la rappresentanza per tutti.

Se non fosse ancora chiaro: dire che gli eletti sono vincolati al programma presentato agli elettori dal capo della coalizione, significa consegnare tutta la rappresentanza al capo della coalizione stessa, introducendo un curioso vincolo di mandato: l’obbedienza al capo, da cui si può uscire solo con il suicidio collettivo.  

Nota a margine: in parallelo al Ddl Casellati, viaggia un altro provvedimento di modifica costituzionale, che vorrebbe portare da 60 a 90 giorni il termine dell’art. 77 Cost. per la conversione dei decreti-legge. Con il chiaro intento di far diventare il decreto-legge l’unica forma di inizio dell’iter legislativo, altro che “casi straordinari di necessità e urgenza”.

Cerchiamo di arrivare ad una conclusione. I sostenitori della “madre di tutte le riforme” affermano: il sistema politico è in crisi, quindi va riformato; e siccome identificano la crisi con la instabilità dei governi, dicono che bisogna rafforzare il governo. Ergo, bisogna modificare la Costituzione in tal senso.

Risposta: il sistema politico è in crisi, lo è sempre, lo è per definizione. La democrazia è imperfetta, “è il peggiore sistema politico, eccettuati tutti gli altri” (citazione un po’ scontata, ma calza sempre a pennello). Oggi è un po’ più in crisi, proprio per l’irrompere sulla scena dei leader più o meno carismatici, Berlusconi, Grillo, ora Meloni.


Ritorno al passato, cancellando il patto costituzionale

Il punto di maggior crisi non è il Governo, che, detto per inciso, si comporta come se il premierato ci fosse già, ma il Parlamento; ed è crisi della qualità e selezione del ceto politico e della rappresentanza.

La Costituzione non va toccata. Non so se è “la più bella del mondo”, ma è una delle più recenti, costruita da menti acute, con lavoro plurale, forti delle esperienze precedenti e dei disastri dei regimi autoritari che hanno segnato la prima metà del secolo scorso. E sulla materia della equilibrata distinzione tra il potere esecutivo e quello legislativo è praticamente perfetta. Naturalmente nessuna affermazione politica è assoluta: si potrebbero introdurre aggiustamenti e correzioni di dettaglio. Mai come in questo momento, però, il (presunto) meglio è nemico del bene. Avviarsi sulla strada della discussione di modifiche, anche marginali, aprirebbe una falla nella diga, senza che ci sia il bambino di Pattini d’Argento a metterci il dito. Difendere la Costituzione così com’è è l’unico modo per rendere chiaro che la “madre di tutte le riforme” non è una modifica qualunque, è la rottura del patto costituzionale nato tra il 25 aprile 1945 e il 27 dicembre 1947 (data di promulgazione della Costituzione repubblicana, firmata da Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Umberto Terracini), passando per il 2 giugno 1946.

Per rafforzare il Parlamento, vanno corretti invece i meccanismi che regolano e favoriscono la rappresentanza: la legge elettorale e il funzionamento dei partiti (dando applicazione all’art. 49 Cost.). Argomenti che meritano una trattazione dedicata.


*Componente dell’Assemblea Nazionale di Azione

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