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Inerzia e paralisi della politica americana in Medio Oriente

Aggiornamento: 22 feb

di Stefano Marengo



Per la terza volta in quattro mesi e mezzo gli Usa hanno posto il veto al cessate il fuoco su Gaza. Come ha sottolineato la scrittrice Francesca Fornario con amara, ma tagliente ironia, ciò è avvenuto "nonostante le forti pressioni di Biden sul presidente degli Stati Uniti". Ma, forse l'inquilino della Casa Bianca, nella circostanza, era preso dalla questione Navalny che lo ha portato a premere sul candidato Biden in corsa per le presidenziali di novembre, che a sua volta, nella foga di un comizio elettorale a San Francisco, ha slatentizzato il suo linguaggio verso il presidente russo Putin, giudicato un autentico "pazzo, figlio di...". Purtroppo è ciò che accade - e accade anche in Italia con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si trasfigura alle prese con le regionali sarde - quando i ruoli si sovrappongono fino a confondere parole e toni, e a perdere lo stile che le istituzioni impongono e reclamano.

Nell'editoriale della scorsa domenica si era segnalata l'ambiguità di un'amministrazione americana che, a parole, sembra richiamare Israele alla ragionevolezza, ma che poi, nei fatti, supporta senza riserve l'approccio - per usare un eufemismo - militarista di Tel Aviv. L'ennesimo veto imposto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ne è la riprova, ed è piuttosto indicativo che il voto abbia avuto luogo pochi giorni dopo l'approvazione, da parte del Congresso di Washington, di un maxi pacchetto di 14 miliardi di dollari in aiuti militari a favore di Israele.

È ormai chiaro che sulle preoccupazioni tattico-elettoralistiche (Biden sa bene che la sua campagna per le presidenziali diventerebbe molto più complicata con un conflitto in corso in Medio Oriente, anche se incombe sempre l'effetto boomerang degli elettori più vicini per religione e cultura alle condizioni dei palestinesi) prevale a Washington la forza del legame con Israele. La Casa Bianca, insomma, non ha intenzione di imporre una frenata ai piani di Netanyahu. 

L'atteggiamento americano è dovuto senza dubbio all'importanza attribuita a Israele come enclave occidentale nel mondo arabo e alle potenti pressioni delle lobby filoisraeliane. A questo punto, tuttavia, non si può fare a meno di cogliere un certo disorientamento strategico nella politica Usa. La decisioni dell'amministrazione Biden, cioè, appaiono determinate dall'inerzia della relazione con Tel Aviv più che da un'analisi davvero ponderata della situazione del campo e, soprattutto, dei suoi possibili esiti. E che cosa riservi il futuro è immediatamente chiaro se si presta attenzione alle dichiarazioni del governo israeliano.

Netanyahu ripete come un mantra il concetto che la guerra contro Hamas non potrà essere vinta senza un'operazione militare massiccia a Rafah, l'area a sud della Striscia di Gaza in cui si trovano ammassati oltre un milione e mezzo di rifugiati palestinesi. Il ministro (ed ex militare) Benny Gantz ha rincarato la dose, aggiungendovi che le operazioni militari potranno avere luogo anche nel mese sacro musulmano di Ramadan, che inizierà il prossimo 10 marzo. In altri termini, per Israele non solo la guerra non si ferma, ma proseguirà ancora a lungo. 

A tutto ciò si deve aggiungere, aspetto tutt'altro che secondario, che anche Siria e Libano continuano da settimane ad essere oggetto dei bombardamenti israeliani. In Libano la tensione è particolarmente alta. Qui Israele non si è infatti limitata a bombardare il sud rurale, tradizionale presidio di Hezbollah, ma è arrivata a colpire Sidone e le aree urbane ad appena 40 chilometri da Beirut. Secondo alcuni analisti, il governo e i vertici militari di Tel Aviv starebbero studiando una nuova invasione del paese dei cedri nella prossima primavera (sarebbe la quarta in meno di cinquant'anni).

Lo scenario che abbiamo di fronte è quello di un inasprimento del conflitto. Un'escalation che è fortemente voluta dallo stesso Netanyahu, il quale sa benissimo che a guerra terminata sarà verosimilmente costretto a rassegnare le dimissioni, e dall'intero governo israeliano, che vede nella congiuntura odierna un'occasione per conquistare e colonizzare nuovi territori e realizzare la "Grande Israele".

L'inerzia americana sta nei fatti assecondando questo disegno e rischia seriamente di innescare un'effetto domino che porterà la destabilizzazione e la guerra nell'intera regione mediorientale, con conseguenze imprevedibili, ma certamente di ampia portata, mentre non è chiaro chi sarà dal 2025 e per i successivi quattro anni il Comandante in capo delle Forze armate statunitensi...  

I primi a pagare il prezzo di tutto ciò saranno, ancora una volta, i palestinesi. La loro voce, mai ascoltata dagli Stati Uniti e da Israele, è sempre più fioca, sommersa dal sangue di Gaza. Ma probabilmente i 30mila morti di oggi non sono che l'inizio. Altra distruzione e altro dolore si affacciano all'orizzonte.



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