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Il Paese vi guarda, ma fino a quando potrà reggere questo spettacolo?

di Menandro |

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“I bambini ci guardano” è il titolo di un indimenticabile film di Vittorio de Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini, uscito nell’ottobre del 1944, soltanto nelle sale cinematografiche del nord Italia in un Paese spezzato in due per l’occupazione nazista. La trama della pellicola è nota: un bambino, Pricò, interpretato dal torinese Luciano De Ambrosis (divenuto poi uno dei più apprezzati doppiatori del nostro cinema), abbandonato dalla madre – una bellissima Isa Pola – che corre dietro all’amante, osserva la sua famiglia disgregarsi con il suicidio del padre, nell’intensa interpretazione di Emilio Cigoli. Dopo lo spettacolo, ripetutamente indecoroso, andato ieri sera in scena in Senato, c’è da chiedersi se gli italiani non si sentano un po’ come tanti Pricò, costretti a subire l’atteggiamento irresponsabile di chi appare disinteressato agli impegni presi con l’ingresso in Parlamento a favore di una personalizzazione esasperata delle vicende politiche. La nostra è una democrazia rappresentativa, ma di rappresentativo oggi vi ritroviamo soltanto l’ego smisurato e il protagonismo di chi usa la parola “Paese” alla stregua di un marchio commerciale, mentre il Paese reale soffre sotto il peso della pandemia e gli effetti che la pandemia ha prodotto: aumento del debito pubblico, disoccupazione, caduta del Pil. E come nel 1944, l’Italia è spaccata in due, con una maggioranza e un’opposizione agli antipodi, poli estremi che hanno sostituito il confronto con l’insulto in servizio permanente effettivo, l’analisi e la soluzione di drammatici problemi con la ricerca spasmodica di slogan ad effetto, pilastri troppo fragili per costruire l’edificio politico che dovrebbe assicurare la crescita materiale e intellettuale al Paese che si dice di servire, a parole. Maggioranza e opposizione comunque distanti da quei principi e valori che dovrebbero, devono, essere comuni e condivisi proprio se si crede nell’alternanza di governo, dunque nel cardine della democrazia. È “l’incomunicabilità” raccontata da Michelangelo Antonioni, per rimanere nell’arte filmica, quantomai tossica per il Paese che all’opposto ha un disperato bisogno di ricostruire la fiducia di chi non ha paura di piccoli o grandi ricatti, di chi è pronto a raccogliere sfide – che non sono quelle estemporanee, pruriginose, raccattate nel Transatlantico – fiducia senza la quale a nessuna comunità si può chiedere uno scatto d’orgoglio per uscire da una crisi, che nel nostro caso dura da troppo tempo. Nel 1944, con la Resistenza che mordeva l’invasore nazista e le Brigate nere, “I bambini ci guardano” fu un film (insieme a “Ossessione” di Luchino Visconti) di aperta e sottile rottura non soltanto per le implicazioni morali che ricadevano anche sulla crudele e decadente parabola dei fascisti della Repubblica di Salò, quanto per il rifiuto del bimbo Pricò, dinanzi al suicidio del padre e al comportamento della madre, al compromesso: s’incammina verso la solitudine del collegio, consapevole che per quanto dolorosa, quella scelta sarà l’unica ad offrirgli una prospettiva futura, l’inizio di una nuova esistenza. La solitudine come prezzo del riscatto che è ciò che oggi appare a molti italiani, dopo la rappresentazione caotica della politica di ieri sera. La solitudine in cui si ha il timore di precipitare ogni volta che si rifiuta conformismo. Ma non si può non ripartire dalla solitudine se si vuole ritrovare il piacere di guardare la serietà dei comportamenti, di apprezzare lo stile con cui si prendono decisioni importanti e a volte antipopolari, di cogliere come metro di misura del sapere anche la pulizia del linguaggio, di riprovare il gusto della forma che diventa sostanza, perché c’è un intero Paese che fuori dalle aule parlamentari ha fame di adultità, di donne e uomini all’altezza del propri ruoli.

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