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Il dilemma delle mascherine, gioco di società del XXI secolo

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |

Come per la nazionale di calcio, di cui ci riteniamo tutti cittì…, ogni italiano ha oramai la soluzione su come devono essere indossate le mascherine. Del resto, il problema si pone a livello europeo come testimonia il contenzioso tra le autorità nazionali spagnole e quelle locali di Madrid. Stante l’incapacità di elaborare una soluzione a livello continentale non è difficile immaginare che la questione sarà presto portata in sede ONU, anche se dopo gli interventi di tanti statisti che hanno fatto la storia del mondo… l’argomento non sembra proprio all’altezza! Banali interpretazioni in un mare di gratuito protagonismo

Se non fosse per il numero di lutti che accompagna la vexata quaestio, l’argomento potrebbe essere incastonato negli inserti satirici, ma così non è. Sull’argomento si stanno cimentando gli esegeti di tutte discipline scientifiche di cui disponiamo: – i costituzionalisti si arrovellano nel definire i limiti tra poteri centrali e poteri periferici; – i filosofi si occupano degli ultimi per comprendere se la protezione delle vie respiratorie può interferire con la libertà individuale, forse confondendo la mascherina con il waterboarding dei sistemi dittatoriali…; – i politici (al di qua e al di là dell’Atlantico) sono impegnati nel definire quale sparata demagogica permetta loro di guadagnare maggiori consensi; – i mass media sono predisposti a dar fiato alle soluzioni più originali (meglio se contraddicono quelle emerse nei giorni precedenti); – i virologi sono impegnati a occupare più spazi mediatici dei meteorologi; – ultimo, a disposizione e a discrezione della sensibilità del lettore… Ma quello che però manca dall’elenco sembrano essere il buon senso e la volontà di ricercare soluzioni funzionali, cioè l’incapacità di unificare le conoscenze (o forse le sensazioni) in un percezione comune, in modo da definire con chiarezza sul da farsi. Il predominio della confusione, mentre si dirada il buon senso

Aristotele utilizzava la locuzione “senso comune” (κοινὴ αἴσϑησις, sensazione comune) per indicare quella percezione che unifica i dati sensibili (configurazione, numero e grandezza) ossia termini connessi a quelle caratteristiche riconducibili alle sensazioni che ha come oggetto riferimenti quantitativi o almeno verificabili. La sensazione rientra nelle facoltà dell’anima (così San Tommaso d’Acquino in “Commentario al De anima”) ed è alla base per affrontare e risolvere problemi quali: confrontare l’affidabilità e i contenuti acquisiti con i diversi sensi (cioè, ad esempio, se il sentito corrisponde a ciò che si vede); associare i contenuti in una sintesi (ad esempio il profumo e le tonalità di colore unificati nel gusto dell’arancio); portare tutte le sensazioni a livello di coscienza per elaborare nuove conoscenze. La mancanza di processi mentali in grado di guidare i comportamenti sociali a regole comuni fa emergere un preoccupante predominio della confusione, dove ognuno si ritiene custode della verità assoluta. Il rischio di un immobilismo globale nell’assenza di dialettica

Cos’è che impedisce oggi di raggiungere una sintesi, cioè un consenso generalizzato sulle concezioni ritenute affidabili dalla gran parte dei soggetti facenti parte di una collettività? L’intelligenza umana che per secoli si è indirizzata a riconoscere, in modo immediato, i fondamentali principi del conoscere e tramite questo elaborare norme valide e condivisibili, ora sembra concentrarsi nel negare quello proposto dagli altri soggetti. E non si tratta di una moderna forma di dialettica che muovendosi dalle capacità dell’intelletto comporta un ragionamento basato su opposizioni e diversità di opinioni mirante a realizzare una sintesi conclusiva e motivata. Nell’attuale fase più che mettere a confronto contrasti di posizioni, per dare origine a nuove e più approfondite forme di conoscenza, si tende a negare il dialogo per un isterico arroccamento su posizioni preconcette. Succede così che un Regio Decreto del 1834 sembra impedire la possibilità di effettuare vaccinazioni presso le farmacie, mentre personale non sanitario può utilizzare il defibrillatore. Si sono creati degli archetipi, non più governati, né governabili, dove l’intelligenza sembra essere data dalla capacità di intercettare un cavillo per non permettere agli altri di esercitare il loro modo di essere. Il lasciare progredire il pensiero altrui, sottopone il nostro modo di pensare ad un severissimo esame (ma questa era proprio la finalità del dialogo costruttivo): si rischia così di creare un immobilismo globale (inteso sia come assoluto che universale) dove non si riesce più ad elaborare un pensiero comune basato sulla ragione e sulla conoscenza. Si fatica anche ad individuare i luoghi dove sviluppare il confronto: l’esperienza delle elezioni presidenziali americane testimonia come i dibattiti televisivi siano occasioni di scontro più che di confronto e neanche sull’uso delle mascherine hanno dato un indicazione chiara. I troppi rovelli in tempo di Coronavirus

Il problema delle mascherine è diventato un problema politico, giuridico, amministrativo, etico-morale, filosofico, di igiene e sanità pubblica… La Covid1-19 costituisce un pericolo (più o meno grave, a secondo dei commentatori) e tutto ciò che si può fare per ridurlo deve essere fatto: mantenere le distanze, lavarsi frequentemente le mani, rispettare le norme igieniche può contribuire (un po’ di più o un po’ di meno a seconda dei commentatori) a ridurre il rischio. Le mascherine (un po’ di più o un po’ di meno, sempre a seconda dei commentatori) possono aiutare a ridurre il rischio. Ed allora perché arrovellarci su come calcolare il metro di distanza, su come si misura il grado di convivenza di parenti e amici, su quali sanzioni (per ora non si parla di sanzioni corporali, almeno in Italia) devono essere irrogate a chi non rispetta il diktat; come possono essere integrate le norme nazionali a livello locale (in Spagna, in Gran Bretagna, in Francia…). E per non farci mancare nulla, interroghiamoci se si possono fotografare, in base alla legge sulla privacy, le persone senza mascherina. Se ci rimane un po’ di tempo e dopo aver risolto tutte le questioni sollevate, indossiamo la mascherina che, un po’ di più o un po’ di meno, a seconda dei commentatori, a qualcosa potrebbe servire: ad esempio, ripara dalle polveri sottili, come hanno già sperimentato gli abitanti di Tokyo e di Pechino. Capitali in cui si sussurra con la tipica discrezione orientale che siano già state organizzate lotterie con ricchi premi…, ma chi le gestisca è ancora un mistero.

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