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Il caro energia non elettrizza le imprese italiane…

di Fabio Schena*|

Si stima che l’aumento dei prezzi delle materie destinate alla produzione di energia porterà nel 2022 la spesa italiana per il loro approvvigionamento a 37 miliardi di euro. Circa 1,5 volte il gettito fiscale derivato dall’IRAP nel 2019. Non è un caso il raffronto con l’IRAP, in quanto anche l’imposta, così come i rincari energetici, ricade più significativamente sull’industria manifatturiera, già duramente colpita dall’epidemia da Covid-19. Nonostante ciò, il 2021 è stato l’anno della ripartenza dell’economia mondiale. In particolare, la crescita del Pil in Italia è stata del +6,5% rispetto al 2020. Le ultime stime per il 2022 sono di un ulteriore incremento, atteso attorno al +4%. Tuttavia, è oggi difficile prevedere in che misura impatterà sull’economia reale la celere impennata dell’inflazione, come è difficile prevederne la sua natura: transitoria o strutturale? Sicuramente possiamo escludere il caso di un’inflazione “sana”, generata dall’aumento della domanda; le sue principali cause vanno ricercate in prevalenza nei pesantissimi rincari delle materie prime e dell’energia. Quali politiche e strategie stanno mettendo in atto le autorità nazionali e internazionali per scongiurare una nuova e imminente crisi economica? Le strategie di politica monetaria che stanno prendendo forma proprio in questi giorni, in risposta alla spinta inflazionistica, mostrano visioni e approcci differenti, per non dire divergenti. Al momento la FED non ha ancora rivisto al rialzo i tassi di interesse, ma la decisione è probabilmente solo rinviata a marzo 2022; la BCE, invece, – con un’inflazione UE al 5% – al momento non prevede alcun ritocco dei tassi per tutto il 2022, “scommettendo” sulla transitorietà del fenomeno inflazionistico: una scelta che, al contempo, vuole mettere al riparo l’economia europea da ulteriori turbolenze sui mercati, che verosimilmente rallenterebbero la ripresa. A livello europeo, cresce la consapevolezza sulla complessità della sfida legata al raggiungimento degli obiettivi climatici fissati per il 2050. Nel 2018 più della metà (58,2%) del fabbisogno energetico dell’UE è stato soddisfatto dalle importazioni. Considerando che a partire dal 2035 in Europa non sarà più possibile immatricolare veicoli a motore endotermico, tra pochi anni il fabbisogno di energia elettrica non potrà che aumentare e, con esso, la dipendenza dell’Europa dall’approvvigionamento estero. Anche per queste ragioni, ossia per acquisire maggiore autonomia energetica, nonché per riuscire a conseguire gli obiettivi di neutralità climatica entro il 2050, la Commissione europea ha recentemente formulato la sua proposta, da più parti criticata, che vede includere il gas e il nucleare tra le energie verdi. Sul fronte nazionale, invece, è corale la richiesta di una chiara visione di politica energetica, che sia di indirizzo per gli investimenti privati, a favore dell’autoproduzione di energia elettrica, con importanti interventi normativi di semplificazione procedurale. Intanto, per far fronte nel “breve termine” al caro energia, il governo italiano (con il Decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4) tra varie misure ha introdotto un contributo di natura straordinaria, sotto forma di credito di imposta, pari al 20% delle spese sostenute per la componente energetica acquistata ed effettivamente utilizzata nel primo trimestre 2022 a parziale compensazione dei maggiori oneri sostenuti, di cui beneficeranno le imprese “energivore”. Questa è la fragile cornice attorno a cui oggi si trovano ad operare le imprese italiane, per la maggior parte di micro e piccole dimensioni, trasformatrici di beni (nel caso della manifattura), spesso impossibilitate a ribaltare i maggiori costi di approvvigionamento sul prezzo di vendita al cliente, per il loro ridotto potere contrattuale (anche per questo motivo in Italia l’inflazione cresce meno che nel resto d’Europa). Con l’economia mondiale in crescita, dunque, crescono gli ordinativi per le imprese che, tuttavia, vivono nell’incertezza sia di riuscire a rispettare i termini contrattuali, sia di assicurarsi una congrua remunerazione economica per le attività svolte. In alternativa, e neppure così raramente, le imprese – loro malgrado – si trovano costrette a rinunciare ai nuovi ordini. * Responsabile Ufficio Studi API Torino

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