Diritti civili, italiani “brava gente”, ma cittadini senza coraggio
di Stefano Marengo |
La vicenda di Mario, cittadino tetraplegico che per primo in Italia ha ottenuto il nulla osta al “suicidio assistito”, sta infiammando il dibattito politico di queste ore. La discussione – è triste dirlo – appare però piuttosto prevedibile, spesso rituale e ideologica, quasi sicuramente inconcludente. Come ha messo bene in luce ieri Daniele Viotti su La Porta di Vetro1, la cronaca fa da specchio anche in questo caso a una politica ignava che da tempo “ha deciso di non fare più il suo mestiere che, tra gli altri, è anche quello di affrontare e risolvere i grandi problemi, che definiremmo etici, di una società complessa”. Sarebbe tuttavia soltanto consolatorio, e quindi sbagliato, addossare alla classe dirigente di questo paese più colpe di quante già non abbia (e sono tante). Detto altrimenti, visto che in democrazia le élites politiche sono pur sempre espressione della società che le elegge, l’ignavia è qualcosa che ci riguarda direttamente, come singoli cittadini e come collettività. La questione che si pone, etica prima ancora che politica, riguarda quello che un tempo si sarebbe chiamato il nostro “carattere nazionale”. Quando temi delicati come il fine vita o tanti altri (non c’è, ahimè, che l’imbarazzo della scelta) giungono alla ribalta del dibattito pubblico, il tratto antropologico che contraddistingue noi italiani è troppo spesso la rinuncia alle responsabilità. Non che prendiamo decisioni sbagliate; piuttosto, ci mettiamo nelle condizioni di non dover decidere, o decidiamo di non decidere. Viviamo di rimessa, ci adattiamo alle circostanze provando a fare di necessità virtù e confidando ci cavarci d’impaccio ancora una volta senza comprometterci. Non a caso, nel calcio, siamo stati “maestri” nel catenaccio e nel contropiede… Per questo il più delle volte ci troviamo perfettamente a nostro agio in dibattiti sterili, di maniera, il cui unico esito sarà di proseguire all’infinito o di perdersi nel nulla senza mai toccare il punto. Alcuni storici ritengono che i limiti del nostro “carattere nazionale” vadano ricondotti al fatto che l’Italia, nella modernità, non ha conosciuto riforme e rivoluzioni, ma solo controriforme e controrivoluzioni. È una tesi in cui c’è molto di vero. Nel nostro retaggio culturale non c‘è un evento fondativo come altrove può essere la Riforma protestante o la Rivoluzione francese, un evento, cioè, che abbia determinato la nostra identità nazionale imponendoci di essere con coraggio all’altezza delle scelte in cui ne andava del nostro stesso futuro. Abbiamo invece per lo più atteso che altri scegliessero, accodandoci in seguito alle loro soluzioni. Uniche eccezione, pur con alcune ombre, l’epopea del Risorgimento e della lotta partigiana, dopo l’8 settembre del 1943. È vero che per un certo periodo ci siamo illusi di esserci lasciati alle spalle questa inerzia. Le generazioni che fecero la Resistenza, scrissero la Costituzione e fondarono la Repubblica si assunsero davvero una grande responsabilità storica, furono davvero all’altezza delle scelte che erano chiamate a compiere. Furono, in questo senso molto specifico, generazioni rivoluzionarie. Ma appunto ci eravamo illusi. Finita l’età dell’oro della Prima Repubblica, venute meno quelle generazioni, ci siamo trovati risospinti nell’ignavia, nel grigiore di un eterno presente privo di scelte reali, nella vacuità di un dibattito che a volte sembra fatto apposta per mantenerci in perpetuo in stato di minorità. E il fatto più desolante è che nessuno, al momento, ha idea di come uscirne. _______
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