top of page

Cop26, prima non abbiamo fatto proprio nulla?

di Mercedes Bresso|

Si è aperta a Glasgow con l’intervento del primo ministro del Regno Unito Boris Johnson la ventiseiesima Conferenza internazionale sul clima e le speranze alimentate anche dal discreto risultato del G20 di Roma, sono grandi. Al tempo stesso non facciamo che leggere sui giornali e sui social o ascoltare alle radio e televisioni delle affermazioni minacciose secondo le quali le generazioni precedenti quella di Greta non hanno fatto nulla o quasi per l’ambiente. Che la situazione sia grave è più che vero, che non si sia agito finora non lo è, invece, e trovo grave la tendenza a sottovalutare l’azione del passato perché si rischia di convincerci che anche gli sforzi futuri saranno destinati all’insuccesso.

Proviamo a ripercorrere gli ormai 50 anni di lotte e azioni per l’ambiente. In realtà l’allarme iniziò prima, nel 1952, quando a Londra uno smog particolarmente spesso trattenne i fumi maleodoranti e tossici che uscivano dai camini di fabbriche e abitazioni e causò uno dei più celebri disastri ambientali: 12.000 morti fra il 5 e il 9 dicembre. E i governi si resero conto che era necessario intervenire sulle emissioni nelle città. Ma il primo allarme globale venne dal Club di Roma che, nel 1972, pubblicò “I limiti dello sviluppo” dove si preconizzava la crisi da esaurimento delle risorse non rinnovabili ma si diceva anche che, se si fossero trovare nuove risorse a sufficienza, la crisi sarebbe venuta dall’aumento continuo della produzione di rifiuti solidi, liquidi e aeriformi. E così è successo. Nello stesso anno a Stoccolma si tenne la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, che sarebbe stata seguita nel 1992 da quella di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, nella quale vennero firmate da molti paesi delle convenzioni sulla biodiversità e sui cambiamenti climatici, vennero lanciati l’obiettivo dello sviluppo sostenibile (contenuto nel rapporto Il futuro di noi tutti) e l’Agenda 21, un programma di azione nei quattro settori dello Sviluppo sostenibile: dimensioni economiche e sociali, conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo, rafforzamento del ruolo delle forze sociali e strumenti di attuazione. Tutti gli Stati avrebbero dovuto redigere le proprie Agende 21 e la stessa cosa avrebbero dovuto fare le collettività locali. Chi avesse la pazienza di rileggere il rapporto e i documenti usciti dalla Conferenza sarebbe stupito della loro qualità e, purtroppo, attualità. Dopo Rio ci fu un forte e vero movimento, soprattutto nei paesi benestanti, di azioni in favore dell’ambiente: moltissimi Stati e migliaia di enti locali prepararono le proprie Agende 21. Ebbi la fortuna di far parte della delegazione italiana a Rio e, quando nel 1995 fui eletta Presidente della Provincia di Torino, di far approvare una Agenda 21 di eccellente qualità coinvolgendo i nostri 315 comuni. Da allora i meeting mondiali si susseguono a ritmi vertiginosi! Ma molto è stato fatto dalla crisi di Londra in poi a livello degli stati, negli USA come in Europa, dove l’Unione Europea, allora mercato comune europeo, ha svolto un indubitabile ruolo di leadership con le tantissime direttive sulle diverse questioni ambientali. Tutte le norme italiane sono state adottate a seguito delle prescrizioni europee. La prima a legge italiana sulla protezione delle acque dolci è del 1976, e successive sono quelle su aria e rifiuti. E non c’è dubbio che nel nostro paese (ancor di più nel resto d’Europa) lo stato dei tre grandi ricettori ambientali sia migliorato. Le grandi città del nord nel dopoguerra erano tutte nere per i fumi inquinanti che uscivano dalle ciminiere delle fabbriche, dai tetti delle abitazioni e dai treni, che usavano ancora molto il carbone senza nessuna filtrazione. A poco a poco le emissioni sono state depurate, i treni e i tram hanno usato l’elettricità, le case hanno installato caldaie più pulite. E si sono approvate norme per i molti altri inquinanti di origine industriale. Si sono costruiti i depuratori per le acque, dettate disposizioni per proteggere le falde acquifere dagli sversamenti inquinanti, si è iniziato a raccogliere i rifiuti civili e industriali e a dettare norme per il loro trattamento prima e differenziazione poi. Sono state approvate norme per la Valutazione di Impatto Ambientale delle grandi opere (diressi quella che la Regione Piemonte fece fare sui siti prescelti per una centrale nucleare, per fortuna ai realizzata), e per il riciclaggio dei rifiuti. Così come si sono introdotti gli Ecolabel per permettere ai consumatori di conoscere l’impatto ambientale dei beni di consumo durevole e le Audit ambientali delle imprese, per premiare quelle più attente alle questioni ambientali. E non va dimenticata l’agricoltura, che utilizzava negli anni del dopoguerra pesticidi e fertilizzanti chimici pericolosissimi (uno per tutti il DDT, usato anche nelle città). Anche qui si è iniziato a studiare gli effetti di questi prodotti, se ne sono cercati di meno pericolosi, si è poi introdotto il marchio dell’agricoltura biologica e di quella in transizione, le denominazioni di origine. Anche per gli allevamenti si sono introdotte norme per migliorare la qualità della vita degli animali e dei prodotti derivati, oltre che per permettere ai consumatori di riconoscerli e di sceglierli. In Italia si sono protette moltissime aree naturali di pregio, è aumentata la copertura forestale e si sono dettate disposizioni sulla limitazione della pesca e sulla protezione della fauna selvatica. Anche in questo caso non possiamo certo dire che siamo soddisfatti, ma non c’è dubbio che si sono fatti molti passi avanti. E si potrebbero moltiplicare gli esempi.

Perché allora oggi, aprendo la COP26 a Glasgow il premier Johnson ha detto che siamo a mezzanotte meno un minuto? Credo che le ragioni siano chiare a molti: quello che si è fatto è stato essenzialmente a livello dei singoli paesi, mentre si sono trascurate le grandi di questioni globali, dall’aumento della CO2 in atmosfera, all’inquinamento degli oceani, all’erosione dei suoli e alla deforestazione nei paesi tropicali le cui foreste pluviali hanno un ruolo determinante nella circolazione atmosferica e nella cattura della CO2. Inoltre molti grandi paesi, con miliardi di abitanti, si sono affacciati alle soglie dello sviluppo, producendo quantità di inquinanti ben superiori ai controlli e alle modeste riduzioni dei paesi ricchi, che peraltro avevano anche esportato verso i paesi poveri le attività più inquinanti. Soprattutto ci si è resi conto della difficoltà di definire accordi internazionali per quelli che si chiamano i grandi beni ambientali globali, perché in questi casi il fenomeno del free rider, lo scroccone che spera siano gli altri ad agire, tenta molti dei protagonisti. Ecco dove siamo: abbiamo fatto molti passi avanti nella conoscenza dei guasti che stiamo infliggendo al Pianeta, migliorato gli strumenti per intervenire e realizzato cambiamenti nei nostri paesi, stiamo anche cercando con accordi vincolanti di evitare i free riders, ma moltissimo resta da fare. E tuttavia, guardando alla strada che abbiamo già fatta, una qualche ragione di sperare l’abbiamo. Questa è la cosa importante: non perdere il coraggio per agire.

0 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page