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A vent’anni dalla morte del Mattatore

Era predestinato ad essere il Mattatore – dal titolo di uno spettacolo televisivo – del cinema italiano. Lo era anche per i suoi tratti morfologici. Vittorio Gassman era alto, merito dei suoi geni tedeschi, di un padre che aveva scelto l’Italia e sposato una donna di origine ebrea. E in un Paese piuttosto bassotto a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, sembrava ancora più alto del suo quasi uno e novanta. Ed era slanciato Gassmann, perché atletico, ma con uno stile diverso da quello cui erano stati abituati e costretti gli italiani da quei ridicoli salti nei cerchi di fuoco tanto cari al segretario del partito fascista Achille Starace. Si muoveva come un ginnasta in piena e flessuosa armonia con il suo corpo; il contrario di ciò che meccanicamente era stato imposto alla sua generazione (era nato il 1 settembre del 1922): dal braccio destro teso per il saluto romano al Duce all’abominevole passo dell’oca nelle parate militari. Ma se con il fisico Gassman segnò l’arrivo del nuovo, del Neorealismo, nel cinema del secondo dopoguerra, fu con la recitazione teatrale intensa negli anni Cinquanta che creò le basi della sua affermazione artistica in Italia e gli diede una allure intellettuale capitalizzata negli anni Settanta e Ottanta nell’incontro con il regista Ettore Scola. Il successo in celluloide fu tardivo. Non gli arrise immediatamente e lui fu il primo a riconoscerlo. In una lontana intervista non ebbe riserve ad ammettere che dal 1946 a I soliti ignoti del 1958 tutto ciò che stava nel mezzo era orrendo. Salvava soltanto due interpretazioni: ne L’ebreo errante di Goffredo Alessandrini e ne La figlia del capitano di Mario Camerini. Non citò neppure l’esplosivo – per la carica sensuale che promanava – Riso amaro di Giuseppe De Santis, il compagno De Santis che il potente segretario del Pci dell’epoca, Palmiro Togliatti, era costretto a difendere dagli altezzosi critici cinematografi del suo partito. Riso amaro fu il film che si incarnò nella figura protoerotica di Silvana Mangano e nei valori morali irradiati dall’ex calciatore del Torino ed ex giornalista de l’Unità Raf Vallone. A Gassman, invece, fu riservato il ruolo del truce, del vile, del peggiore, “qualità” che con l’uscita dal fascismo contribuivano di rigore a mandare chiunque, metaforicamente parlando, al confino cinematografico. Con quel profilo e il naso adunco – un po’ come accadde per parecchio tempo all’attore americano, Lee Van Cleef, prima di essere lanciato da Sergio Leone – Gassman divenne il cattivo per antonomasia. Tant’è che ne I soliti ignoti, il regista Mario Monicelli gli cambiò letteralmente faccia: il naso aquilino fu sapientemente ammorbidito e arrotondato del cotone nelle narici, uno spessore sotto il labbro ridusse il ghigno malvagio, la parrucca contribuì a dargli un aspetto da tontolone. La seconda vita di Gassman nel cinema prese slancio da quella preziosa e insuperabile pellicola. Ma fu con Il sorpasso di Dino Risi, una storia alla Easy Rider ante letteram come venne definita, che il Mattatore entrò nella dimensione più autentica, a coronamento esemplare dello stesso omonimo film, sempre diretto da Risi, che l’aveva visto protagonista nel 1960. Negli anni successivi, infatti, Gassman si ritrovò spesso a sostenere con la sua proverbiale ironia che “dovendo citare un mio film, per un’inutile cronaca postuma, credo che citerei Il sorpasso“. E per delicatezza a vent’anni oggi dalla sua morte, ci si ferma qui nel ricordo.

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