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A.A.A. cercasi Commissari alla Sanità in Calabria<br> La crisi di una nazione allo specchio

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |

La kermesse sollevata sulla nomine del commissario per la sanità calabrese fa riflettere, sperando che il prescelto – Guido Longo, ex prefetto di Vibo Valentia e questore di Reggio – non si trasformi subito in una vittima sacrificale del sistema, non più in grado di governarsi (per il principio secondo cui il peggior commissario è meglio che nessun commissario). Il problema non è però quello di trovare un nome, con un curriculum più o meno adeguato, ma come la nostra società non riesce più ad individuare obiettivi di sistema, né tanto meno formare una classe dirigente in grado di realizzarlo. La democrazia è tale solo se viene esercitata: cioè se ci sono persone che si impegnano per renderla attuale. L’analisi della funzionalità degli enti pubblici presuppone una sempre maggiore rispondenza del sistema alle infinite aspettative che si vanno a creare nella società, ma queste spesso nascondono solo l’incapacità di definire obiettivi comuni fattibili. Ne consegue una radicalizzazione del senso d’insicurezza, generando a sua volta una diffusa sensazione che il sistema non riesca più a soddisfare tutte le istanze, sia in termini di tempestività, che di qualità delle prestazioni. Il funzionamento del modello democratico-manageriale

Il processo di scelta di un management qualificato risulta particolarmente difficile specie se non si dispone di scuole di management qualificate, capaci d’interpretare logiche di efficienza privatistica con gli obiettivi politico sociali. Nel settore pubblico, la selezione del management deve inevitabilmente rispondere alle scelte “partitiche” che una collettività periodicamente esercita tramite il voto. Nelle società occidentali si è venuta a creare una successione circolare dove il cittadino sceglie la classe politica che, una volta indentificati gli indirizzi e i principi etici elegge l’esecutivo per stabilire i criteri di governo e la distribuzione delle risorse. Queste vengono assegnate a manager chiamati a gestire in modo corretto e efficiente le risorse disponibili. Se l’azione manageriale di tutti i soggetti chiamati a gestire la cosa pubblica sarà apprezzata, il cittadino-contribuente tenderà a esprimere nuovamente il consenso per la stessa classe politica, altrimenti tenderà ad indirizzare il suo consenso verso altri soggetti. Ed il ciclo si ripete o si interrompe a discrezione del cittadino-elettore. Nella realtà, la circolarità della successione presenta più possibilità d’interruzione. Il primo è dato dal fatto che, mentre in passato si votava in funzione di scelte ideologiche (cioè di visione globale della società) oggi il voto è maggiormente condizionato dall’apprezzamento o meno delle capacità amministrative sviluppate nel corso della legislatura. Di conseguenza il giudizio di un soggetto può essere positivo per alcuni aspetti e negativo per altri. Il voto diventa quindi una sintesi sulla capacità di amministrare e non più sulla condivisione di un modello da perseguire. A ciò si aggiunge il fatto che la classe politica riflette il volere del popolo ad una determinata data, che può modificarsi nel tempo (problema che cresce con la durata della legislatura). Le difficoltà crescono se ci si sposta negli altri passaggi del ciclo: la scelta di una classe dirigente presuppone la creazione di percorsi formativo realizzabili solo in un arco di tempo piuttosto lungo (tipo l’ENA, École nazionale d’administration di Francia, dove si formarono anche presidenti quali François Mitterrand, Jacques Chirac, Valéry Giscard D’Estaing). La situazione italiana è caratterizzata dalla mancanza di formazione di una classe dirigente che induce spesso i manager a cambiare spesso simpatie politiche per assecondare il potere di turno. Questo atteggiamento rende meno pregnante l’importanza di offrire servizi di qualità alla cittadinanza in quanto non è da questo che dipende la loro riconferma. Il sistema democratico rischia così di incepparsi perché il voto espresso non ha il potere di condizionare né la scelta della classe dirigente, né il grado di soddisfazione dei servizi acquisiti. La domanda sorge spontanea: quante e quali sono le responsabilità collettive?

Fino ad alcuni anni fa, partecipare alla vita pubblica era un privilegio di cui tutti volevano fregiarsi. Non vi era Consiglio Comunale che non annoverasse tra le sue file i notabili del luogo: industriali, medici, farmacisti, comandanti dei vigili urbani etc. persone che si sentivano in dovere d’impegnarsi nella vita pubblica. Alcune potenti famiglie trassero anche vantaggi da quella loro posizione, ma diedero (o provarono a dare) un contributo nell’elaborare una società più moderna. Oggi l’esempio offerto dalla scelta per il commissario per la sanità calabrese testimonia un preoccupante disinteresse verso la necessità di ricoprire incarichi pubblici. Il risultato successivo è quantomai desolante: anziché lavorare per una nuova classe dirigente, ci si accontenta di trovare qualche persona presentabile per onorare gli impegni democratici (in alcuni paesini non si trova neanche un numero sufficiente di candidati), per cui la selezione scade sul nascere. Nel ricercare le ragioni che portano al rifiuto di accollarsi prese di responsabilità è la sensazione che il semplice ricoprire una carica non permette d’influire sulle reali situazioni. Il potere sembra cioè declinarsi in una miriade di rivoli che impediscono il formarsi di una leadership autorevole. Anzi proprio la possibilità che si possa individuare un punto di riferimento induce il formarsi di coalizioni per contrastarlo, portando a forme di immobilismo. L’Italia ha già vissuto un simile periodo nell’epoca comunale e rinascimentale che, se da un lato hanno ritardato il formarsi di un processo unitario, dall’altro hanno permesso di generare un fervido periodo senza pari nella storia delle arti e delle scienze. Per poter funzionare, ogni sistema abbisogna però di energie endogene che stimolino i singoli attori a operare verso obiettivi di alto profilo. Senza confronti competitivi tra il maggior numero possibile di idee (e non più di persone) non si possono innescare meccanismi volti a realizzare un più alto livello di libertà, obbligando il sistema a progredire a ritmi di sviluppo decisamente troppo lenti. Occorre cioè formalizzare la necessità di un confronto/analisi tra “mix qual-quantitativo delle risorse impegnate e l’apprezzamento economico-sociale dei benefici ottenuti”, ricordandosi che il benessere sociale non si “esaurisce” nel momento in cui viene prestato, ma si sviluppa nel lungo periodo, fino ad interessare le prossime generazioni. La predisposizione di apposite analisi econometriche, pur non fornendo valori assoluti e senza la presunzione di conoscere il futuro, può almeno offrire la possibilità di ordinare le singole perfomances in base all’efficienza dei processi posti in essere. A livello macro economico, nell’auspicabile previsione di una maggiore integrazione internazionale, bisognerà porre i singoli sistemi nazionali, regionali, o locali, di poter correre a “velocità compatibili”, con continue opportunità di confronto sul livello del raggiungimento degli obiettivi. Ma ci sarà qualcuno che vorrà candidarsi per questi compiti?

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