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9 maggio 1978: la morte di Aldo Moro e Peppino Impastato

di Vice|


Il 9 maggio del 1978 morivano due persone estremamente diverse e distanti tra loro per estrazione sociale, ruolo, professione, età, quanto vicine per il comune desiderio di migliorare il proprio Paese, ognuna di esse a modo proprio, rivendicando sempre la propria identità e la propria passione politica. Quelle persone rispondevano ai nomi di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e Peppino Impastato, giornalista e attivista politico, entrambe uccise.

Aldo Moro fu eliminato dalle Brigate rosse dopo 55 giorni di prigionia trascorsi in più covi. Il suo cadavere venne fatto ritrovare in via Caetani, all’interno di una Renault 4 di color rosso. Un “commando” delle Br l’aveva sequestrato il 16 marzo in via Mario Fani, all’angolo di via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma. Con quella che fu definita una “geometrica potenza di fuoco”, i brigatisti rivolsero le loro armi automatiche contro l’auto su cui viaggiava il presidente della Dc, uccidendo il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi e il carabiniere Domenico Ricci, e contro la scorta, colpendo a morte i tre poliziotti, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

Alle risposte negative dello Stato per uno scambio di prigionieri, la sorte di Aldo Moro fu decisa da una raffica di mitra, come stabilì l’autopsia. Non aveva ancora compiuto 62 anni, lasciava una moglie, figli e nipoti. In quell’arco di tempo relativamente breve era stato più volte Presidente del consiglio, ministro e da decenni ai vertici del suo partito. In sostanza, politicamente era stato tutto. Da cattolico, gli mancava soltanto il martirio. I terroristi supplirono a questa mancanza, ma non gli chiesero se ne fosse contento. Lui non lo era e dal suo punto di vista era più che comprensibile. Lo scrisse ripetutamente nelle sue lettere dalla prigione, ma in quella fase, non furono in molti a capire che cosa avrebbe significato la sua perdita per l’Italia. E tra quei pochi, i più erano quelli che desideravano non rimpiangerlo. Le Brigate rosse avevano soltanto favorito il disegno di cui riteneva Moro un uomo scomodo. Le sue aperture a sinistra, al Pci di Enrico Berlinguer, non piacevano. Anche se con lungimiranza, nonostante il “fuoco amico” all’interno del suo stesso partito, fosse solidamente convinto che soltanto la sponda democristiana avrebbe dato la spinta al partito comunista di trasformarsi in ciò che era di fatto da tempo: un partito con una spessa vena socialdemocratica, progressista, distante dalla liturgia dell’Unione Sovietica e del Pcus, anche se ancora fiero e orgoglioso della sua liturgia, del primato della diversità, della sua formidabile organizzazione. E con la trasformazione del Pci si sarebbe anche trasformata (finalmente) l’Italia.

Ma per una volta tanto l’Occidente, Nato e Stati Uniti concordavano con il blocco dei paesi dell’Est, Patto di Varsavia e l’Unione sovietica per svuotare quella possibile evoluzione italiana. Naturalmente, c’è chi obietterà sulla semplificazione dell’assioma, ma non è semplicistico affermare che con l’omicidio Moro quel processo si interruppe. Lo si voglia o no. Nello stesso giorno, veniva ritrovato il corpo dilaniato dal tritolo sulla linea ferroviaria Palermo-Trapani di Peppino Impastato. Aveva trent’anni, e viveva a Cinisi, dov’era nato, un paese di una decina di migliaia di abitanti, “feudo” di un potente capomafia, Tano Badalamenti. Peppino Impastato dirigeva una radio locale e via etere denunciava quotidianamente le collusioni della politica con la mafia, le attività di Badalamenti che caustico irrideva con il soprannome di “Tano Seduto”. Un’ironia intollerabile per gli uomini “d’onore” di Cosa Nostra.

La messinscena sui binari ferroviari e l’effetto da tritolo sulla carne viva e servirono a depistare le indagini e a favorire l’iniziale versione ufficiale di “suicidio”, convertito nell’esito letale di un “fallito attentato terroristico”. Menzogne. Una donna, l’amore di una mamma, furono decisive per sollevare il velo di falsità e la coltre di oblio che si volevano sulla memoria di Peppino Impastato. La mamma Felicia, insieme al fratello Giovanni, concorsero a far proseguire le indagini, nonostante l’archiviazione del caso decisa nel 1992. Determinante fu l’intervento del procuratore capo di Palermo dell’epoca, Gian Carlo Caselli, a far riaprire le indagini che portarono all’incriminazione e alla successiva condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, quale mandante dell’omicidio. La sentenza rappresentò l’emersione della verità giudiziaria. La verità storica con i possibili intrecci tra gli omicidi dell’onorevole Aldo Moro e del giornalista Peppino Impastato, invece, è ancora latitante.

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