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Economia USA e getta?

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Pietro Terna

I segnali che ci arrivano dall’economia non sono chiari. La Germania scricchiola, la Cina si accontenta di una crescita del 6%, considerata deludente (per i loro standard), noi stiamo attenti allo zero virgola… Guardiamo allora agli Stati Uniti. Quali dati ci interessano di più per cercare di capire come procede quell’economia? La borsa? Sappiamo che non è impossibile sia preda di andamenti che si sostengono con eccessi di euforia e relative bolle, ora rivolte nella direzione di quelli che in gergo si chiamano unicorni, creature mitologiche che corrono verso capitalizzazioni gigantesche, grandissimi fatturati e pochi utili o addirittura grandi perdite. Un analista spiritoso ha scritto: io vendo biglietti da 100 dollari per 50 dollari; all’inizio la gente non si fidava, poi hanno visto che sono biglietti veri, validi e ora ho un fatturato in crescita esponenziale; certo ho grandi perdite, ma sin che le banche mi fanno credito… Cerchiamo allora una misura concreta, come la bassissima disoccupazione, che sembra indicare una economia florida. Purtroppo incontriamo altri problemi. Un numero molto recente di National Affairs (inverno 2020, n.42) titola «Istruzione e uomini senza lavoro»1. Una polemica strumentale contro Trump? È poco probabile, perché National Affairs è orientato al fronte conservatore e dispone di un collegamento forte2 con l’American Enterprise Institute, vale a dire il ben noto think tank AEI, certamente non… sovversivo. Che cosa si legge sotto quel titolo (mia traduzione):

Secondo l’ultimo rapporto mensile sull’occupazione dell’Ufficio di statistica del lavoro, i tassi di occupazione per gli uomini americani nell’ottobre 2019 erano molto vicini ai livelli del 1939, come riportato nel censimento degli Stati Uniti del 1940. Nonostante alcuni miglioramenti dalla fine della Grande Recessione, i tassi di occupazione in stile Grande Depressione sono ancora oggi confermati per il maschio americano, sia per quelli della prima età lavorativa (da 25 a 54 anni) sia per il gruppo più ampio, da 20 a 64. A differenza della Grande Depressione, tuttavia, l’attuale crisi lavorativa non è una crisi di disoccupazione. Al giorno d’oggi solo una minima parte degli uomini americani senza lavoro lo cerca. Infatti abbiamo assistito a un esodo di massa di uomini dalle di forza lavoro. Al momento della stesura di questo documento, quasi 7 milioni di uomini, di età compresa tra i 25 e i 54 anni, non lavorano né cercano lavoro – oltre il quadruplo di quanti sono formalmente disoccupati. Tra il 1965 e il 2015, la percentuale di uomini statunitensi in prima età non appartenenti alla forza lavoro è aumentata dal 3,3% all’11,7%. C’è un secondo allarme e questa volta la fonte è una istituzione pubblica, trattandosi dell’ILO-USA, la International Labour Organization, sede di Washington. In una nota3 sulla gig economy (che possiamo tradurre come economia dei lavoretti, ad esempio i fattorini che consegnano la pizza a domicilio), si legge (traduzione mia): L’Ufficio di statistiche del lavoro riporta che, nel 2017, 55 milioni di persone negli Stati Uniti sono “lavoratori gig“. Questa misura rappresenta circa il 34% della forza lavoro statunitense e dovrebbe aumentare al 43% nel 2020. I segnali sulla precarietà intrinseca di quella economia sono molto preoccupanti! Sento già qualche amico dirmi: sì, ma con il nuovo accordo per il commercio con la Cina, gli americani guadagneranno un mare di soldi. Uhm. Ora cito l’AIER, l’American Institute for Economic Research, un think tank indipendente fondato nel 1930, che titola4 “La logica surreale dell’accordo commerciale di Trump” e denuncia (traduzione mia): L’aspetto davvero strano dell’accordo è l’aggiunta di 200 miliardi di dollari in beni e servizi statunitensi che i cinesi hanno “promesso” di acquistare nel corso di due anni, probabilmente attraverso società private, aziende statali e lo stato stesso. Quegli acquisti, distribuiti in modo dettagliato tra le industrie statunitensi, fa sì che il presidente [Trump] abbia adottato un atteggiamento molto più favorevole alla pianificazione rispetto a quello delle sue controparti cinesi. (…) Un sano settore di esportazione ruota [invece] attorno alle singole aziende che creano articoli a un costo sufficientemente basso da attrarre un consumatore disposto ad acquistarli. L‘immagine che accompagna l’articolo nel sito AIER è “parlante” ed è riportata qui come preoccupata conclusione.



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