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Stefano Marengo

Verità, mezze verità e bugie sul conflitto tra Israele e Iran

di Stefano Marengo


Nonostante decine di video abbiano mostrato diverse strutture militari israeliane colpite dai razzi iraniani, la stampa e i governi occidentali sembrano ostinatamente decisi a negare l’evidenza. Secondo alcuni giornali, il sistema di Iron Dome avrebbe addirittura fermato tutti i missili iraniani. Si tratta delle stesse testate che, nel frattempo, danno per “collassato” Hezbollah, omettendo la notizia che i guerriglieri libanesi, in un paio di imboscate prossime al confine, hanno già inflitto alle Idf, per loro stessa ammissione, significative perdite in termini di uomini e mezzi. Risultati, sia chiaro, di cui non ci si rallegra minimamente per il significato che esso include in termini di vite umane perdute da una parte e dall'altra.

Tuttavia, pur nell'estrema complessità della questione anche sul piano internazionale (rapporti con Cina e Russia) ci sarebbe seriamente da riflettere sulle ragioni per cui i media si stanno dimostrando così refrattari a riportare i fatti, cosa che dovrebbe essere ben distinta dall’assumere una posizione sui fatti stessi. Siamo davvero nell’epoca della post verità? Può essere. In attesa di capirlo vale la pena prestare attenzione alla realtà e provare a capire il significato e le conseguenze del contrattacco iraniano nei confronti di Israele.

Innanzitutto la semantica. Quello effettuato dall’Iran è stato appunto un “contrattacco” motivato dall’uccisione, da parte di Israele, del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh (assassinato a Teheran nel giorno del giuramento del presidente Masoud Pezeshkian), del segretario generale di Hezbollah Hasan Nasrallah e del generale delle guardie della rivoluzione Abbas Nilforoushan.

Per la verità i leader iraniani, soprattutto negli ultimi mesi, erano apparsi ben poco disposti all’uso delle armi, tanto che, dopo l’uccisione di Haniyeh, avevano inizialmente rinunciato alla rappresaglia, a quanto sembra persuasi da Washington che Israele avrebbe accettato un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. L’assassinio di Nasrallah e di Nilforoushan è stata però la goccia che ha fatto traboccare il vaso, rendendo evidente che Israele non solo non è intenzionato a fermare la guerra ma, con i duri attacchi al Libano che hanno già provocato oltre mille morti e un milione di sfollati, vuole trascinare nel conflitto tutta la regione, con la speranza nemmeno troppo dissimulata di coinvolgere direttamente gli Stati Uniti (indeboliti da una presidenza dimezzata) nel sua scelta deliberata di scontro armato.

A questo punto, da parte del regime oscurantista di Teheran, il contrattacco si è reso necessario, pena la sostanziale acquiescenza alla furia israeliana, il venir meno del cosiddetto “asse della resistenza” e dell’influenza iraniana sui suoi alleati storici. Si è quindi trattato di un’operazione dall’elevato valore militare e politico, ben diversa dalla rappresaglia dell’aprile scorso a seguito del bombardamento israeliano di una sede diplomatica iraniana a Damasco, anche se, a onor del vero, bisogna aggiungere che proprio quella rappresaglia era servita a Teheran per mappare l’intero sistema difensivo di Israele, dalle postazioni di Iron Dome alle piste di decollo di caccia e bombardieri, e per capire quali paesi arabi, come la Giordania, avrebbero tentato di intercettare e distruggere i missili e i droni iraniani.

Tutte queste conoscenze sono state messe a frutto con il contrattacco del 2 ottobre. Per quanto sia difficile stimare i danni provocati, quel che è certo è che un significativo numero di missili ha bucato lo scudo di Iron Dome e colpito diverse infrastrutture strategiche, come ad esempio la base aerea di Nevatim (con la distruzione di un numero imprecisato di caccia F-35), il quartier generale del Mossad a Tel Aviv e una piattaforma per l’estrazione del gas al largo di Ascalona.

Ora, prima di considerare le conseguenze politiche, è utile osservare, di passaggio, come l’operazione iraniana abbia evidenziato l’insostenibilità delle giustificazioni che Israele antepone da tempo immemore alle stragi di palestinesi operate dalle Idf. Molti degli obiettivi militari colpiti da Teheran, infatti, si trovano in aree densamente popolate, alcuni nel cuore stesso di Tel Aviv. Stando alle accuse che i leader israeliani rivolgono a Hamas e Hezbollah ne dovremmo forse concludere che Israele utilizza i propri cittadini come scudi umani? In secondo luogo, l’Iran ha dimostrato che, pur lanciando missili da duemila chilometri di distanza, si possono colpire obiettivi molto precisi evitando massacri di civili. Dovrebbe allora essere abbastanza chiaro che l’uccisione di decine di migliaia di persone di Gaza non può venire derubricata a “danno collaterale”, ma è in quanto tale volutamente perseguita da Israele.

Per quanto riguarda il prossimo futuro, la leadership iraniana ha dichiarato che non intende alimentare ulteriormente l’escalation (anche per ragioni di sopravvivenza e per non esporre il regime a contraccolpi interni), ma che, qualora Israele dovesse rispondere al contrattacco, rimane pronta ad attuare una rappresaglia ancora più dura, probabilmente facendo ricorso ai missili ipersonici di cui dispone in quantità ragguardevoli. Da parte sua Netanyahu, con le mani tremanti, ha affermato che la ritorsione delle Idf non si farà attendere, cosa che è perfettamente in linea con il proposito di Tel Aviv di estendere il conflitto a tutto il Medio Oriente.

È impossibile prevedere oggi come finirà questo confronto ad alta tensione. Ciò che va detto, invece, è che il suo esito dipenderà dalla posizione che assumeranno gli Stati Uniti. Da un anno a questa parte Washington ha rinverdito la strategia dell’ambiguità, costruendo una narrazione che pone gli USA come mediatori del conflitto e, contemporaneamente, come parte in causa a incondizionato sostegno di Israele. È però ormai chiaro a tutti che gli americani non possono interpretare tutti i ruoli in commedia e che quella giocata dalla Casa Bianca è una partita di una palese ambivalenza.

Così in questi mesi abbiamo visto gli Stati Uniti proporre accordi per il cessate il fuoco (peraltro sottoscritti dalla resistenza palestinese) per poi allinearsi nuovamente a Israele nel momento in cui Netanyahu decideva di far saltare i negoziati. Abbiamo sentito Biden e la candidata Harris esprimere preoccupazione per l’elevato numero di civili uccisi a Gaza, salvo poi affrettarsi a recapitare a Tel Aviv nuovi aiuti militari (solo la scorsa settimana sono stati stanziati a questo scopo 8,7 miliardi di dollari). Più in generale, Washington non si è mai dissociata dal governo israeliano quando quest’ultimo ha deliberatamente compiuto pericolosi passi verso un crescendo della tensione, anzi non ha lesinato minacce di ritorsione di fronte ai contrattacchi dell’asse della resistenza.

Che cosa faranno adesso gli Usa? Sono davvero disposti a dare inizio a un conflitto che coinvolgerebbe tutto il Medio Oriente e al quale dovrebbero infine prendere parte direttamente? Come giustificherebbero di fronte all’opinione pubblica americana la necessità di assecondare le pulsioni belliche del governo Netanyahu? L’asse della resistenza sa bene che le prossime mosse di Israele dipenderanno anche e soprattutto dal volere di Washington, e per questo i leader iraniani hanno alluso e possibili rappresaglie contro gli USA e i loro alleati nella regione qualora l’escalation non dovesse essere fermata. In concreto, in un futuro contrattacco potrebbero essere prese di mira anche le basi americane in Iraq, le navi militari USA che incrociano nel Golfo Persico e i pozzi di petrolio e le raffinerie saudite.  

Se mai si dovesse concretizzare questo scenario la situazione diverrebbe catastrofica per il Medio Oriente e avrebbe gravissime ripercussioni sul resto del mondo. Da un anno a questa parte, tuttavia, pare che Washington e Tel Aviv abbiano smesso di parlare il linguaggio della politica e della diplomazia per ascoltare unicamente il suono delle armi. Gli Stati Uniti farebbero bene a ponderare seriamente le conseguenze a cui condurrebbe il loro incondizionato sostegno a Israele. Un sostegno incondizionato che, per giunta, sta diventando per gli USA più un peso che un vantaggio. Al riguardo, seguendo la logica del più rigoroso realismo politico, diversi analisti ritengono che gli USA dovrebbero prendere atto che la loro priorità strategica è oggi il confronto-scontro con la Cina nell’Oceano Pacifico e che quindi, dopo il pantano della guerra in Ucraina, non possono certo permettersi un braccio di ferro in Medio Oriente. Rimane però aperto l'interrogativo se l’impero americano non sia ormai giunto al termine del suo ciclo egemonico. Infatti, come la storia insegna, è proprio in queste epoche di senescenza, quando si cerca con ogni mezzo di conservare il proprio potere, che la razionalità politica rischia di essere scalzata dal ricorso irrazionale alla forza, anziché dalla ricerca della pace. Una pace di cui la nostra vecchia Europa, alle prese con una crisi di identità senza precedenti, avverte un assoluto bisogno.

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