Torino e il suo futuro: "Il senso di comunità se non è nelle mani dei cittadini è fragile"
Aggiornamento: 24 gen
di Aida dell'Oglio
I riflettori si sono già spenti sul recente dibattito che si è svolto la sera dello scorso 16 gennaio tra l'Arcivescovo di Torino Roberto Repole, il sindaco della città Stefano Lorusso e il presidente della Regine Alberto Cirio, iniziativa promossa dal settimanale della Curia "La Voce e il Tempo".[1] Ma non si sono spenti, ovviamente, i problemi che l'incontro ha richiamato in forma quasi subliminale con il titolo che ha fatto da filo conduttore: Qual è il bene per Torino? Riportare dunque l'attenzione sulle parole scandite nella serata, credo che sia anche un atto dovuto agli stessi protagonisti che hanno accettato di offrirsi al giudizio dei cittadini.
Personalmente ero assai ben disposta ad ascoltare parole precise e decise soprattutto da monsignor Repole, che agli inizi di dicembre aveva avuto parole significative a proposito di Stellantis e del destino oscuro di Mirafiori. Non ero l'unica, probabilmente, perché il teatro del Collegio San Giuseppe era affollato, gremito fino alle ultime file. Tuttavia, dopo alcuni interventi, la tentazione è stata quella di chiudere il collegamento e fare altro, perché non udivo alcuna proposta, ma solo una specie di “giustificazione” della scarsa operosità delle istituzioni cittadine. Solo la mia caparbia fiducia che qualche cosa di significativo sarebbe stato detto, mi ha tenuta ferma davanti al computer per oltre due ore.
L'informazione tra amministrazione pubblica e cittadinanza
Non tutti i presenti in sala hanno pensato come me. Quando è stato loro chiarito che non era previsto dibattito, molti sono andati via. Quanto a me, ho visto ripetersi una recita cui ho già assistito molte volte.
L'insistenza, nei loro discorsi, sulla necessità di un operato comune, sinergico, tradisce però la realtà della situazione. Assistiamo frequentemente a dichiarazioni di intenti, da parte dell'amministrazione comunale e del governo regionale che prefigurano prospettive assai discordanti. In mezzo la popolazione, a cui si chiede, programmaticamente, di esprimere il proprio parere sulle questioni della vita cittadina, che la riguardano direttamente, in primis: lavoro, sanità, strutture sociali, scuola, educazione, riqualificazioni ambientali e molte altre tematiche che in questi ultimi tempi sono prepotentemente venute alla ribalta, ma a cui, sistematicamente, si proibisce di far sentire la propria voce, che si tratti di dissenso o, molte volte, di proposte operative.
Come? Ad esempio, informando tardivamente, in articulo mortis, si direbbe, di operazioni che l'amministrazione ha programmato da tempo, ma la cui comunicazione arriva ai quartieri, e quindi alla singolarità delle persone, solo alla vigilia della reale effettuazione. Ad un certo punto arriva, comunque, e ciò non può tradursi se non in contrasto tra le parti, in azioni che hanno lo scopo di bloccare alcune di queste operazioni, che il cittadino ritiene lesive dei propri diritti, primo tra tutti, spesso, quello alla salute.
Non è un procedimento virtuoso da parte delle amministrazioni pubbliche più in generale, le quali, inoltre, avendo a propria ampia e quasi esclusiva disposizione i mezzi di comunicazione, hanno gioco facile a presentare il proprio programma come necessario e utile alla cittadinanza, mentre l'opposizione dei cittadini si traduce come la rivolta di sparuti gruppi di “facinorosi”, anche quando i gruppi sono tutt'altro che sparuti. A tutto questo pensavo mentre ascoltavo le relazioni dei quattro partecipanti.
Il rapporto del sociologo Luca Davico
Oggettiva e formulata su dati inoppugnabili, quella del sociologo Luca Davico, che ha ruotato sui temi che riguardano in modo specifico Torino: quello demografico, ad esempio. E' vero, infatti, che il calo demografico riguarda l'intero Continente europeo e quindi l'Italia e le grandi città, ma Torino ne soffre in modo particolare. Torino attrae molti studenti italiani e stranieri nei suoi Atenei, quotati nel mondo, ma non è capace di trattenerli dopo averli formati. I giovani, quelli che potrebbero contribuire alla crescita demografica, vanno via perché le condizioni di lavoro e il corrispettivo economico, che vengono loro offerti, sono assolutamente inadeguati al livello di formazione che hanno raggiunto. Umilianti addirittura.
Sia pure avendo dovuto attraversare la depressione dei due anni del Covid, nei due anni successivi, le altre grandi città d'Italia hanno aumentato la loro capacità di impresa e i relativi livelli. Non così Torino, che si situa agli ultimi posti quasi in tutti i settori. Per assurdo, il settore automobilistico è ancora quello trainante, ma i dati ci dicono che, pur essendo lievemente aumentato il livello di occupazione, questo riguarda gli adulti: uomini e donne; non i giovani. Così nel settore aerospaziale, dove Torino è al quarto posto e in quello informatico, mentre, nonostante un'apparenza di grande fermento, che è sotto gli occhi di tutti, nel settore turistico, Torino è all'ultimo posto rispetto alle grandi città.
Un dato mi è sembrato assai interessante; nonostante la scarsa crescita economica, Torino, rispetto a Milano, che sicuramente è cresciuta assai di più in questi ultimi due anni, ha una minore disuguaglianza sociale, benché queste siano significativamente cresciute negli ultimi anni. A Torino sono aumentate le fasce con reddito molto alto, ma anche quelle con reddito molto basso e la precarietà colpisce il 20% degli adulti, i tre quarti dei giovani. Infine, bisogna sfatare la leggenda che la flessibilità del lavoro crei più occupazione e migliori complessivamente la situazione economica dei cittadini, come i contratti atipici, sempre più frequenti, che non contribuiscono a modificare il Pil.
Ne consegue la riflessione sul fatto che le disuguaglianze sociali non si risolvono con lo sviluppo economico; queste sono due variabili indipendenti. Per incidere sulle disuguaglianze economiche bisogna intervenire sui modelli di sviluppo, cioè sul lavoro, sul fisco, sul welfare. Fin qui i dati della ricerca presentata con grande chiarezza da Davico. I successivi interventi poco o nulla hanno aggiunto .
Il destino di Mirafiori
Fastidiosa l'atmosfera da “quattro amici al bar” più volte sottolineata da alcuni: il tema era molto serio e l'uditorio più che analisi ripetute della situazione, si attendeva qualche concreta proposta. In questa direzione, mi è apparso opportuno il richiamo dell'Arcivescovo a Lo Russo e Cirio ad assumersi la responsabilità delle ricadute sociali per la diminuzione dei posti di lavoro. Ma qui il pubblico si attendeva una posizione più decisa, non una descrizione delle inevitabili conseguenze del minor reddito sulle infrastrutture. Tutti i presenti, immagino, fossero a conoscenza della fondamentale domanda posta da Repole a Stellantis nei primi giorni di dicembre, sul futuro dell'azienda ex Fiat, dello stabilimento di Mirafiori, nello specifico.
Ora, forse, andava detto a voce ferma e tono più deciso che è inutile spendere soldi nella formazione di giovani che subito dopo saranno costretti a cercare lavoro all'estero. Suggestiva, invece, l'osservazione, ai limiti dell'eresia, sull'uomo fatto a immagine di Dio: il ricco simile a Dio come il povero?
Qui forse tutte quelle persone delle file di mezzo e soprattutto delle ultime, che fremevano per intervenire, ma cui è stato detto che non erano previste domande dal pubblico, attendevano qualche cosa di più dal nostro Arcivescovo, uno sviluppo del concetto, non il ribadire la necessità di un progetto educativo sui giovani. Sarà per questo che la sala ha iniziato a svuotarsi? E' vero che la fragilità dei giovani è causata anche dal nichilismo degli adulti, ma che cosa viene offerto loro dalle istituzioni se non il “panem et circenses”, da sempre utilizzato dal potere?
Poco altro è stato messo a fuoco nelle successive relazioni. Il sindaco Lo Russo ha continuamente cercato di allontanare dalla sua figura istituzionale la responsabilità delle piccole e grandi scelte possibili, che interpellano tutti i cittadini, ma nello stesso tempo, afferma, passano sulla testa del sindaco. I problemi di Torino sono quelli delle grandi città, nelle quali “si concentrano tutte le positività e tutte le negatività”. Il futuro di Torino, a suo avviso, dipende da tutti, dalla capacità di attivare un processo che aiuti ad attivare una strategia largamente condivisa. In poche parole, sindaco, sindacati, associazioni concordi su lavoro, occupazione, giovani. La sinergia tra queste forze è condizione essenziale per la ripartenza.
Riparte da questi concetti il presidente della Regione Cirio, sottolineando ancora la credibilità delle istituzioni come risultato dell'accordo tra le stesse. Il bene di Torino è lavorare insieme, anche quando non si è in tutto d'accordo. Ad esempio, sulla questione Stellantis. Non è detto che sia l'unica possibilità. Se il gruppo automobilistico non intende aumentare la produzione con nuovi modelli di auto, nulla vieta di chiamare altre imprese, purché quel minimo di ripresa a cui stiamo assistendo, per cui il Pil di Torino è cresciuto nell'ultimo anno più di quello di altre città, produca altri positivi effetti.
Le posizioni di Cirio e Lo Russo
Produrre ricchezza, infatti, permette anche di fare progetti di redistribuzione. Tutto bene, ma i ripetuti accenni sulla difficoltà di lavorare insieme, ci fanno sospettare programmi e visioni troppo distanti sulle prospettive di sviluppo della città. Cirio annuncia poi di voler organizzare un salone per l'orientamento dei genitori, spesso incapaci di indirizzare correttamente la formazione degli adolescenti. Anche per Cirio è importante a Torino avvicinare il Centro alle periferie, perché queste ultime dove è massimamente concentrata la disoccupazione, escano dal ghetto. E quindi la strategia della redistribuzione della ricchezza, lavorando soprattutto sulle leve dello sviluppo e sulla coesione sociale. Favorire l'impresa dei giovani investendo in formazione e infrastrutture, anche, ad esempio, collegando meglio, con un prolungamento della metropolitana, punti molto lontani della città. Poco chiaro è apparso l'esempio di apertura di un centro Cartier, in zona molto periferica, recuperando edifici dismessi.
Lo Russo torna sul tema della redistribuzione della ricchezza ma indica come presupposto lo sviluppo economico, contraddicendo platealmente quanto affermato dal sociologo Davico e cioè che i due elementi non sono correlati. D'altra parte, anche a noi sembra che che non vi sia un elemento di causa effetto, perché la redistribuzione della ricchezza presuppone un'idea di società e di giustizia che al momento non vediamo ancora delinearsi all'orizzonte. L'Africa è molto ricca, ma contiene anche un numero elevatissimo di poveri.
Toccato benché molto superficialmente, il tema della presenza degli immigrati in questa città. Stupisce sentire alcune affermazioni di Cirio: “forse questa città non è troppo ospitale con gli immigrati, ma ragazzi, in Francia è peggio...” Oppure ricordarci che l'Europa regala miliardi di euro alla Turchia perché blocchi il flusso dei migranti. Ma noi Italiani non siamo anche Europei? Sentire che il numero degli immigrati a Torino è assai esiguo, perché questa è per loro solo una tappa del cammino verso l'Europa del Nord, tant'è che da qualche decennio non si assiste più all'aumento della natalità, favorita soprattutto dagli immigrati.
Le proposte di monsignor Repole per l'integrazione
E' vero, ma solo in parte. Lo testimoniano le innumerevoli organizzazioni cittadine, della Caritas, del volontariato che si sviluppa sia presso le istituzioni laiche che presso quelle cristiane, e che cercano di aiutare gli immigrati nell'inserimento sociale. Qui mi piace ricordare l'osservazione (proposta?) di monsignor Repole, cioè di trasformare le centinaia di giovani volontari che si occupano di insegnare Italiano: lingua e cultura agli adulti immigrati di ogni parte del mondo, in impiegati retribuiti dallo stato.
Resta invece il tema molto grave della palese ingiustizia del nostro sistema giuridico che non prevede ancora il riconoscimento della cittadinanza, automatico, a chi è nato e compie il suo percorso formativo e culturale in Italia. Elemento non poco significativo di emarginazione. Ma questo tema si lega anche al problema assai grave della scarsa partecipazione al voto. Sono soprattutto i giovani che si astengono dalla vita politica e dal voto.
Ma se il mondo politico, quello più vicino della città, operasse in modo da integrare al meglio la popolazione giovane, se la facesse sentire parte e autrice di un progetto di sviluppo che la riguarda, non riuscirebbe forse a recuperare molta parte dei giovani a cui per ora, e purtroppo anche nei programmi futuri, l'Amministrazione cittadina pensa di offrire prevalentemente spazi per lo svago spensierato della movida e degli stadi? Torino può e deve tornare ad essere inclusiva e accogliente. Solo così può guardare serenamente ad un futuro di sviluppo e di concordia sociale. Sono d'accordo: il senso è la Comunità, ma questa può nascere soltanto aggregando i cittadini attorno ad una idea di giustizia sociale e di partecipazione.
Note
[1]https://www.laportadivetro.com/post/l-impulso-della-chiesa-torinese-e-la-traduzione-della-politica;
https://www.laportadivetro.com/post/repole-cirio-e-lo-russo-per-il-futuro-di-torino-non-è-stata-un-occasione-sprecata;
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