Terzo mandato sì o no? Falso problema rispetto alla crisi della rappresentanza
Aggiornamento: 28 gen
di Giancarlo Rapetti

La disputa sul terzo mandato, segnatamente dei Presidenti di Regione, è legata alla contingente questione dei destini personali di Luca Zaia e Vincenzo De Luca. Ma, per gli osservatori più attenti, è una ulteriore occasione per affrontare il più rilevante problema delle distorsioni nei meccanismi elettorali che caratterizzano la cosiddetta Seconda Repubblica. Costituisce un passaggio importante in argomento l’articolo di Mercedes Bresso, pubblicato recentemente su questo sito[1], che illustra dinamiche e problematiche, anche quelle conosciute personalmente nella sua esperienza di Presidente della Regione Piemonte e giunge ad interessanti conclusioni che, a mio avviso, centrano il cuore del problema. Sul tema è intervenuto, sempre sulla Porta di Vetro, anche Paolo Cugini, per dieci anni sindaco di Gassino.[2]
Facciamo un passo indietro: la questione di non consentire una permanenza troppo lunga nella stessa posizione di potere dipende proprio dal fatto che quel potere è personale e supera quello delle assemblee elettive, le quali, come nel caso di Regioni e Comuni, possono sfiduciare il Presidente o il Sindaco solo sfiduciando se stesse. Non è che non accada, ma solo quando la corda delle tensioni, eccessivamente tesa, si strappa. Si ricorderà il caso del sindaco di Roma Ignazio Marino o, più recentemente e più vicino a noi, i casi di Castellazzo Bormida e Novi Ligure. Accade anche il contrario, con le dimissioni del Presidente che fanno decadere l’intero Consiglio Regionale, come nel caso recente della Liguria. Un evento che sfido chiunque a spiegare comprensibilmente ad un turista arrivato da Marte. La plastica e brutale conferma che i consiglieri regionali sono solo dei birilli e l’unica scelta a disposizione dell’elettore è quella del Presidente; il resto è irrilevante. Con tanti saluti al principio della rappresentanza. Una pratica perversa, a cui ci siamo assuefatti. Ma è come l’assuefazione all’inquinamento: ci fai l’abitudine, ma non è che non ti faccia più male.
Si dirà: l’elezione diretta del capo del potere esecutivo è pratica comune e antica negli Stati Uniti, a cominciare dal Presidente. Vero, e il sistema americano ha una sua coerenza intrinseca, pur essendo diverso dalla cultura politica europea. Con una differenza decisiva, rispetto alle leggi elettorali regionali e comunali da noi: Presidente, Governatori, Sindaci e tutti gli altri, negli USA sono eletti con votazione separata, con un’altra scheda, spesso un’altra elezione, rispetto alle assemblee rappresentative. Si tratta di due poteri diversi, entrambi legittimati dal voto popolare, indipendenti uno rispetto all’altro, che non possono licenziarsi reciprocamente. Si potrebbe disquisire sull’origine di questo format e sulle ragioni storiche della differenza con il modello europeo della sovranità popolare delegata alle assemblee elettive. Resta il fatto che le leggi elettorali della Seconda Repubblica hanno mescolato i due sistemi producendo il peggior risultato possibile.
Mercedes Bresso propone in sostanza di riportare l’elezione di Sindaci e Presidenti alla competenza delle assemblee elettive. Una proposta forte e innovativa, che supera la questione del numero dei mandati e rilancia il peso delle assemblee stesse. Che, tuttavia, meriterebbe un passo ulteriore. Rispetto alla soluzione indicata dalla zarina, mi permetterei di osservare che “l’indicazione” del Presidente sulla scheda contrasta con l’assunto dichiarato di voler eliminare l’elezione diretta.
Infatti se “l’indicazione” è vincolante ricadiamo nel meccanismo che si intende superare, se non è vincolante serve solo a far gridare agli oppositori del Presidente poi eletto dal Consiglio regionale che non è stata rispettata la volontà popolare. E, aggiungerei, il premio di maggioranza (regionale) rende il proporzionale meno proporzionale e soprattutto impedisce all’elettore di scegliere liberamente ed effettivamente il consigliere preferito nel proprio collegio. Questo risultato, che credo non sia contestato, in linea di principio, da alcuno, si raggiunge con il proporzionale di collegio. Si tratta in sintesi di applicare la regola secondo cui il potere esecutivo è espressione della maggioranza; invece il potere legislativo, o semplicemente il potere assembleare, deve rappresentare tutti i partiti e tutti i territori: dicendo tutti, si intendono quelli che raggiungono una soglia di consenso significativa. Con il proporzionale di collegio, con collegi piccoli, con liste corte, la soglia implicita è alta. Ma è variabile, e decisa dagli elettori. Non è predeterminata in modo arbitrario a livello regionale dalla maggioranza uscente in base alle proprie vere o presunte convenienze.
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