Storia della sanità, capitolo XXXI: l’Evangelizzazione sanitaria
di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |
Nei primi passi dell’opera di evangelizzazione si ritrovano spesso le pratiche di alcuni predicatori che associavano la cura del corpo con quella dell’anima.
Il vescovo Cromazio di Aquileia, noto per la pratica di curare tutti i mali psichici e fisici con la resina originata dal legno (cioè dallo stesso materiale della Croce di Cristo) introdusse una prima distinzione tra: – salus intesa come condizione specifica dell’individuo; – sanitas intesa come l’uomo si è organizzato per predisporre strutture volte a erogare cure. E parallelamente tra: – una medicina terrena o fisica per la cura del corpo e delle sue malattie; – una medicina caelestis, che affronta i problemi dell’anima. Riflettendo così l’insegnamento di Cristo, medico sia dell’anima sia del corpo, che si rivolge direttamente agli ammalati, attribuendo all’uomo la possibilità di guarire. La medicina religioso-cristiana sostituisce le formule magiche con le preghiere, quali strumento di esortare l’attenzione divina e come atto di fiducia nelle possibilità dell’uomo di combattere qualsiasi situazione. L’immagine della malattia come una punizione di natura divina, tipica della tradizione ebraico-crisitiana, si contrapponeva alla visione ippocratica della vendetta della natura contro chi si abbandona ad eccessi, portava ad interpretare i malori fisici come una metafora del male morale. Seneca s’interroga su quanto fosse possibile conoscere e su quanto, di fatto, si conosce sulla salute dell’uomo: “Se il medico non fa altro che tastarmi il polso e considerarmi uno qualsiasi dei tanti pazienti, prescrivendomi freddamente ciò che debbo fare od evitare, io non gli sono debitore di nulla, poiché egli in me non vede un amico, ma solo un cliente”. Il ragionamento di Seneca si sviluppa anche nel promuovere un’incisiva azione pedagogica, utilizzata per suscitare repulsione verso i peccati: interpretazione ripresa poi dai padri della Chiesa. Dalle catacombe ai monasteri
L’impostazione filosofica e antropologia del cristianesimo porta la Chiesa ad assumere un ruolo attivo nella gestione delle cure che si manifesta in una quantità pressoché infinita di strutture realizzate all’uopo. Se, infatti, per il cristianesimo la malattia è sovente associata alla punizione divina e, di conseguenza, una specie di castigo inflitto a chi trasgredisce le regole, la stessa religione prevede la possibilità di riscatto, nel momento in cui si riconosce che un atto di amore verso un soggetto che soffre è come se fosse fatto direttamente a favore: “ogni che fare del bene al più umile dei Vostri fratelli è come se lo sveste fatto a me”. Le radici del cristianesimo hanno portato non solo ad interessarsi della salute dell’anima, ma anche alla salute fisica della popolazione, obbligando così la società a prendersi cura dei pazienti in quanto individui e non solo per evitare che la plebe si ribelli, come avveniva nella Roma pagana.
Anche se di una vera e propria organizzazione dedicata alla cura dei malati si può parlare solo quando, come precisa l’enciclopedia cattolica, “la Chiesa ebbe il riconoscimento della sua libertà”, le attenzioni delicate in modo organico alla realizzazione di strutture per gli ammalati si ritrovano già anche nel periodo delle catacombe. I primi antenati degli ospedali cristiani di cui si ha prova certa, grazie alle testimonianze di San Girolamo, sono quelli eretti dal patrizio Pammachio, alle foci del Tevere, e quelle della matrona romana Fabiola. Altri interventi si svilupparono presto anche nelle altre diocesi dell’Italia, sia sotto la tutela dei vescovi (già nel periodo delle catacombe, ogni vescovado doveva predisporre un luogo per il ricovero dei viandanti, soprattutto se malati), sia accanto ai monasteri: anzi, una delle ragioni per cui furono fondati molti dei monasteri è proprio da ricondursi alle necessità di ricovero dei pellegrini o dei malati.
Innumerevoli sono gli esempi che si potrebbero trarre dalla letteratura cristiana riferibili a situazioni connesse con lo stato di salute e, in particolare, con la gestione di particolari malattie.Sicuramente la patologia più menzionata sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento è la lebbra. È probabile che non in tutti i casi ricordati sui sacri testi si riferiscano effettivamente alla lebbra propriamente detta, anche perché i vocaboli ebraici usarono molteplici lemmi (garabh, neghabh, netheq, sara’ath, sehin). I primi lebbrosari per curare e isolare gli infermi
Di certo è che detta malattia era parecchio diffusa nel mondo antico e colpiva per la sua gravità l’immaginario collettivo fino a farla diventare l’immagine stessa del dolore: viene, infatti, descritta anche dai greci, dai romani e dagli arabi e dal 490 a.C. si ha notizia certa di lebbrosari, cioè di strutture idonee all’isolamento e alla cura dei soggetti infetti.Nel Levitico (13, I – 14,57) è riportato quasi un trattato relativo alla malattia: grazie alle nozioni semeiotiche allora conosciute si procedeva a rilevare tutti i casi sospetti e a procedere con continue osservazioni per verificare se si trattava del morbo o di semplici piaghe o pustole.
Il malcapitato, nel periodo di osservazione, pur continuando a vivere nel villaggio, non poteva però avere contatti con il resto della popolazione: se poi il dubbio veniva confermato dal sacerdote, si provvedeva a dichiarare immondo il soggetto e ad estenderlo all’accampamento, al fine di evitare ogni possibilità di contagio. La sorte dei soggetti coinvolti era particolarmente drammatica: con vesti sdrucite, con il capo scoperto e velandosi fino ai baffi, girovagavano per le campagne gridando “Immondo! Immondo!”. La segregazione non era però strettamente individuale e ciò permetteva ai lebbrosi di organizzare forme di convivenza comune al di fuori dell’accampamento o dell’abitato. Qualora uno di malati fosse guarito, veniva sottoposto ad un’attenta e minuziosa osservazione che poteva durare anche più giorni. Accertata la non pericolosità, il sacerdote che l’aveva dichiarato sano provvedeva a riammetterlo nella comunità con un particolare cerimoniale: in fondo era la vittoria dell’uomo su forze ostili ed occulte.
Già sul finire del II° secolo dopo Cristo la cultura cristiana, soprattutto nell’Impero d’Oriente dove le comunità cristiane erano già organizzate e dove i mezzi disponibili permisero di realizzare grandi nosocomi, talmente grandi da essere definiti piccole città, si comincio ad affrontare il problema dell’educazione sulle modalità di affrontare, oggi diremmo tecnicamente, il problema dell’igiene. Sul lato delle conoscenze igieniche spicca il lavoro di Tito Flavio Clemente, nel suo “Pedagogo”, pur rimanendo ancorato alla cultura e alle tradizioni del tempo, elabora una dottrina sull’igiene per molti versi rivoluzionaria.
Si esce così dalla medicina delle catacombe, dove prevaleva la misericordia e la buona volontà dei singoli e, con la consacrazione dell’ufficialità, si può dare avvio ad una medicina cristiana, volta a realizzare un approccio scientifico che vuole vedere dimostrato e ripetibile ogni effetto derivante dall’uso terapeutico di una sostanza o di una pratica terapeutica.
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