Storia della sanità, capitolo XXVIII<br> Corre l’anno 542, la peste sbarca a Costantinopoli
di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |
Per la sua posizione e per la sua storia, l’Impero d’oriente ebbe la possibilità di salvaguardare e rielaborare le conoscenze maturate in Roma, riscoprire le conoscenze dei greci praticamente alla fonte e dialogare con la nuova cultura araba che si affacciava sul Mar Mediterraneo (mentre l’Occidente sprofondava sotto il peso delle invasioni barbariche). I medici musulmani diedero, infatti, un significativo contributo alle scienze mediche. È proprio il livello di conoscenze acquisite che permise di separare i “nosocomi”, destinati specificatamente alla cura dei malati, dagli “xenidochio” destinati ai forestieri, dai “ptochio” per i poveri, dai “gerontocomi” per i vecchi e dagli “orfanotrofi” e i “brefotrofi” i per i giovani.
L’attenzione prestata dai bizantini nel predisporre imponenti strutture per il ricovero di malati accrebbe ulteriormente a partire dal 542, allorché la città dovette affrontare la prima grande epidemia di peste. Anzi fu proprio da Costantinopoli, l’antica Bisanzio, che questo morbo, proveniente dalla catena montuosa dell’Himalaya (probabile zona d’incubazione della epizoozia-peste dei roditori), cominciò a diffondersi in tutta l’Europa, dilaniandola per secoli. Le condizioni socio economiche di Costantinopoli, all’epoca decisamente superiori a quelle presenti nel resto del mondo, permisero di aggredire il problema dedicandovi risorse, che permisero di realizzare le prime strutture per affrontare il problema. Non avendo altre conoscenze, le soluzioni adottate nella capitale dell’Impero bizantino si ritrovarono poi nell’Europa ancor dopo l’anno 1000, allorché la peste, dopo 400 anni circa di semiletargo, ritornò a virulentare. Virus e morbo al tempo dell’Impero romano
Le prime epidemie di cui si ha conoscenze sono quelle scoppiate ai tempi degli imperatori Cipriano e Giustiniano che devastarono tutto l’Impero romano. Sia nella forma bubbonica che in quella polmonare, infinito sarebbe l’elenco degli episodi mortali registrati e del terrore che questi svilupparono tra le popolazioni, fino al punto che se una persona starnutiva, si gridava subito: “Dio Vi benedica!”, e tale abitudine, sia pur solo più come forma di buona educazione, è arrivata fino ai nostri giorni. I rimedi su come affrontare la peste si confondono tra la superstizione e il semplice “provare a fare qualche cosa di concreto”. Si consigliò, ad esempio, di astenersi dall’ingerire cibi freddi e umidi e, soprattutto, di evitare di mangiare pesce, per l’origine acquatica degli stessi. Altri fattori considerati possibili eccipienti del contagio erano i comportamenti irosi o di eccitazione. Se colpiti dal morbo molti medici dell’epoca consigliavano di non pensare alla morte, anzi bisognava sforzarsi di distrarsi guardando a lungo oggetti d’oro o di argento di pregevole fattura, così pure come non bisognava palesare troppa compassione per la sorte dei propri simili: più che per evitare la contaminazione, questa norma serviva probabilmente ad evitare le lamentele e di dover ascoltare le ultime volontà del malcapitato. Metà Trecento: scoppia la terribile “peste nera”
Prova dello scarso approccio scientifico dei medici di Costantinopoli nell’affrontare la peste, si rileva nell’esaminare come la città si predispose alla seconda ondata di peste. Secondo alcuni storiografi, il flagello fu attribuito ai marinai di 12 galere genovesi che nel 1347 la contrassero a Messina e la diffusero sulle rive del Bosforo. Per scampare all’immane tragedia, si consigliò, sia ai sani che agli infetti, di trasferirsi in altre città, facendo così esplodere il contagio. Il problema è che molti medici dell’Occidente guardavano a questi medici bizantini come dei mostri di conoscenza. È così la famosa peste nera produsse tra il 1347 ed il 1353, più di 25 milioni di morti nel continente europeo, pari ad un terzo della popolazione. Peggio andava nello stesso periodo alla città di Kaffa assediata dai Tartari che pensarono di catapultare i corpi degli appestati, morti o morituri, dentro le mura. L’idea di utilizzare le possibilità di contagio per scopi bellici si ritrova purtroppo più volte nella storia: dalle coperte volutamente contaminate con il vaiolo distribuito ai nativi d’America, all’utilizzo della polvere di spore di antrace che infettarono poche decine di persone, ma che diffusero il panico tra milioni di americani, facendo chiudere migliaia di uffici pubblici. Con la firma della convenzione internazionale “Biological and Toxins Weapons Convention” nel 1972 si considera proibito ogni forma di ricerca e di utilizzo di armi biologiche (anche se diverse sono le notizie che alcuni “Stati canaglia” abbiano continuato ad operare su questa strada). Rimedi e contrasti alla diffusione delle epidemie
Si provò di tutto: dal rimanere rintanato in casa, al far bruciare incensi o canfora, dal bere alcolici o mangiare aglio o il condire tutto con zafferano e aceto. Si arrivò anche a produrre maschere raffiguranti volatili dal grande becco dove poter inserire erbe profumate allo scopo di uccidere i batteri presenti nell’aria, prima di respirare e altri bizantinismi medici che più complicati erano, più davano l’idea di essere efficaci. Non a caso, il medico bizantino Alessandro di Tralles (525-605), i cui trattati rimasero fondamentali per tutto il Medioevo per gli studenti di medicina scriveva: “[…] bisogna dunque mettere a confronto il danno che ci si attende dalla somministrazione del vino al paziente con il vantaggio che ci si aspetta di ricavarne. Qualora gli elementi a favore siano preponderanti è concesso far assumere del vino al malato senza impensierirsi troppo. È sempre possibile infatti che un farmaco che arrechi un giovamento possa fare contemporaneamente anche qualche danno. Il medico ha il compito di mettere a confronto e valutare tali situazioni, perché se ogni rimedio è somministrato secondo le giuste proporzioni e in quantità corretta, a tempo debito e con decisa tempestività, tutti gli interventi dell’arte medica avranno buon fine e raggiungeranno l’esito migliore…”
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