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Storia della sanità, capitolo XII: la cura attraverso l’imbalsamazione

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |


Pur attivando anche terapie magiche e “appelli al Dio”, nella medicina egiziana mancano spesso quegli scolasticismi (cioè quegli enunciati teorici e cure indotte da essi, anziché da osservazioni dell’evento) che invece condizionarono quasi tutte le medicine antiche. Il principio base di questo filone pragmatico tecnico ed empirico della medicina egiziana era quello di aiutare la natura a seguire il suo corso (o di ritardarlo nel caso della mummificazione), intervenendo soprattutto per lenire i dolori del paziente.

Ad ispirare il processo di mummificazione fu probabilmente lo stato di conservazione dei cadaveri nel deserto: il processo di disidratazione dei corpi portò a credere che rimanesse un collegamento tra il corpo e la vita nell’aldilà. Ne derivò che la conservazione del corpo costituisse un presupposto per la vita ultraterrena.Anche in Egitto si rileva chiaramente la distinzione tra le conoscenze sapienzali-esoteriche da quelle tecnico-empiriche, distanza che, però non impediva significativi punti di contatto. I papiri testimoniano come le conoscenze chirurgiche, riconducibili alla cosiddetta medicina esterna, si affiancarono un’infinità di formule, pozioni e rituali. Tra religione e medicina: il venerato Imhotep (2.600 a.C.)

Le stesse divinità appartengono sia alla sfera dell’immaginario che all’esperienza pratica: Sekhmet, ma anche Iside ed Hathor sovrintendono all’attività dei medici egiziani, ma vi sono anche medici reali che sono stati divinizzati. È questo il caso di Imhotep capo dei medici del re Zoser (2650 a.C.) talmente bravo da essere venerato. Sulle rive del Nilo, si sviluppò un’intensa relazione tra religione e sanità che però non ostacolò l’affermarsi di una figura professionale medica ed Imothep rappresentò perfettamente questa aspirazione, passando da gran visir del faraone Djoser, a protettore perenne della medicina. Imhotep, visse intorno al 2600 a.C. Sacerdote, ufficiale, costruttore e architetto (è accreditato come l’artefice della piramide più antica, quella di Saqqara), visse alla corte del faraone Djoser della III Dinastia. Considerato, quasi universalmente, il vero «Padre della Medicina», Imhotep è ritenuto l’ispiratore del testo contenuto nel famoso papiro detto “The Edwin Smith Surgical Papyrus”, considerato il primo trattato medico della storia dell’umanità. A lui si ispirarono espressamente Ippocrate e Galeno anche sotto l’aspetto etico di una disciplina senza alcun atteggiamento discriminante, ma volta esclusivamente al benefico della comunità (per dirla con una definizione ippocratica, l’«amore per l’uomo e per l’arte»). Dall’invocazione agli Dei alla nascita delle “specializzazioni”

I diversi modi di porsi nei confronti delle singole manifestazioni morbose permisero una specializzazione fra le persone che, come maghi, medici, sacerdoti o semplici praticoni, si dedicavano al problema, mossi anche da pietas, come testimoniano le invocazioni rivolte agli Dei soprattutto per proteggere i bambini. Con l’avvio di questi processi di specializzazione acquisì però importanza difendere, da parte degli addetti, le conoscenze acquisite: gli incantesimi dovettero ben presto essere praticati ad un’ora prefissata del giorno, nella stagione appropriata, così come indicata nel calendario del tempio, in modo che il Dio o lo spirito invocato potesse essere riprodotto nelle circostanze più vantaggiose. Questo processo di specializzazione, portò a formare, da un lato, medici-chirurghi, con specifiche professionalità, (soprattutto nel campo delle oftalmie, nell’individuazione degli agenti patogeni collegabili a sindromi da parassiti, delle malattie del sangue etc. mentre scarsa attenzione veniva, in genere, riservata alle attività connesse, con il sistema nervoso centrale) e dall’altro lato, i medici-sacerdoti, col compito di conservare i segreti della medicina teorica. Dall’antico Egitto le prime “emigrazioni” di prestazioni mediche

Pur non essendovi traccia di un riferimento etico, tipo giuramento ippocratico, i medici egiziani rispondevano comunque ad una morale profondamente umana, predicata in numerosi testi letterali questa supremazia culturale fu tale che la loro fama superò i confini dell’Impero dei faraoni. Quelli egiziani furono i primi medici a “vendere” le loro prestazioni anche all’estero: la prima esportazione di servizi sanitari. Non si è ancora in presenza di un villaggio globale, così come teorizzato da Mc Luhan, ma è certo che medici egiziani prestavano i loro servizi presso le corti dei re siriani, persiani, Ittiti, greci, gli aristocratici Romani, etc. Occorre sottolineare la rigidità con cui, con l’evolversi della storia egiziana, non si permetteva a questi operatori sanitari d’utilizzare tutte le conoscenze apprese, ma solo quelle per cui si otteneva un’apposita dispensa. Ciò favorì la specializzazione e creò un gran numero di medici/chirurghi da stupire ulteriormente lo stesso Erodoto: la cultura greca tendeva, infatti, a interpretare la figura del medico come quella di un “tuttologo” nel suo campo, mentre in Egitto ogni malattia aveva il suo medico. Di conseguenza, in Grecia la tutela della salute divenne un problema della polis, mentre, in Egitto, rimase essenzialmente individualistico, anche se un centinaio di statue ed epitaffi dedicate ai medici testimoniano la vigilanza esercitata sul settore da parte di un Ministro di Stato, coadiuvato da funzionari periferici (funzioni queste ricoperte da persone provenienti dalla professione medica, a testimonianza di una certa autonomia della categoria). I templi, ovvero l’abbozzo dell’idea di struttura ospedaliera

Quest’importanza obbligava a realizzare appositi luoghi a destinazione vincolata: i templi, dove conservare i segreti della professione, iniziare i nuovi adepti e, per far cassa, si provvedeva anche a fornire direttamente l’interpretazione di sogni o altri segni premonitori ed ovviamente offrire il servizio di “oracoli”. I templi offrivano, infatti, la cornice ideale per dare affidabilità alle interpretazioni, compresi, anzi soprattutto, quelli a contenuto terapeutico ed a fornire gli annessi rimedi. Con il trascorrere del tempo, i templi potevano anche diventare sede di attività sanitarie vere e proprie: non ancora dei nosocomi, ma l’acquisizione dell’importanza di poter disporre di spazi specifici da dedicare alla sanità. Alcuni sacerdoti cominciarono a ricevere e curare i malati direttamente sotto il tetto del tempio. La struttura del tempio permetteva, infatti, di organizzare i primi approcci epidemiologici: sulle mura si potevano trascrivere i dati salienti dei singoli casi clinici, controllare l’istruzione e la corretta applicazione delle direttive impartite agli “ieroduli” e poi riportare su papiri gli elementi base dell’igiene che doveva sovrintendere le attività poste in essere (le prime ricette di cui si ha testimonianza). Numerose sono le pratiche di disinfezione giornaliera eseguita con resine, con mirra o con miscugli di erbe, oltre alle note procedure per l’imbalsamare e fasciare il corpo dei defunti, che però non erano pratiche a carico della classe medica. Proprio per l’importanza attribuita dagli egiziani al rituale dell’imbalsamazione (che poteva durare anche 200 giorni, di cui 15 per la sola fasciatura) e la connessione tra questa e la religione, le sale per imbalsamare erano parte integrale dei templi, facendo di questi la sede naturale della cultura degli studi sul corpo umano. Interventi chirurgici: rari e modesti per non fare danno ai vivi…

Studi, ma non interventi: se da un lato, alcune osservazioni dei medici egiziani portarono, ad esempio, alla esatta interpretazione delle lesioni di focolaio con le relative paralisi crociate (fenomeno riscoperto solo dopo secoli), pochi, in realtà furono gli interventi chirurgici eseguiti direttamente nei tempi. Meglio non fare danni ai vivi, sembrava essere il loro motto! O forse era la volontà di tenere lontano la morte da luoghi dove la sapienza onnipotente degli Dei e dei loro sacerdoti poteva essere disturbata dalle miserie umane. I ritrovamenti archeologici confermano queste ipotesi portando alla luce pochissimi strumenti chirurgici ed inoltre mancano documenti che parlino di operazioni sottocutanee o anche solo di interventi veri e propri sulla dentatura. Occorre, infatti, sfatare alcune leggende: la trapanazione del cranio fu poco praticata, né si può parlare di una vera e propria odontoiatria chirurgica, al più qualche mestierante, s’ingegnò a preparare artigianalmente le prime protesi dentali e a provare a sostituire i denti cariati con altri di avorio o con manufatti di metallo. Pur non essendo molto efficaci, i guadagni degli odontoiatri egiziani non dovevano andar male in quanto gli egizi erano usi cibarsi di alimenti molto zuccherati. Inoltre gli egiziani impastavano il pane all’aria aperta, accentuando il rischio che granelli di sabbia (nefasti per i denti) portati dal vento del deserto si mischiassero con la farina. Ancor più devastanti erano le sostanze per sbiancare i denti: il primo dentifricio era, infatti, un impasto fatto da polveri abrasive (corallo, pomice e gusci d’uovo impastati con urina di bambini) non solo inutili, ma non proprio gustose. Forse è per questo che, evitando i sorrisi, spesso le raffigurazioni fanno sembrare tristi gli egiziani. La divinità Osiride e il processo di mummificazione

Lo studio anatomico si avvalse solo parzialmente del lavoro degli imbalsamatori: questi, infatti, erano considerati praticanti di livello sociale inferiore ai medici. La pratica dell’imbalsamazione può essere fatta risalire a una delle divinità che riscosse maggiore devozione nella storia egiziana: Osiride che sarebbe stato richiuso, dopo la sua morte, in un sarcofago per poi rinascere allorché il suo cadavere, imbalsamato e fasciato, secondo un preciso rituale, fu riposto in un nuovo scrigno, a testimoniare come l’origine della vita e l’origine della morte quasi coincidessero. In osservanza a questa leggenda ai sarcofaghi venivano praticati dei buchi (e con il raffinarsi dei gusti si dipinsero dei grandi occhi) per permettere al cadavere di vedere e nella stanza funebre si lasciavano beni di ogni tipo e delle statuette, sia di umane che di animali che si sarebbero rianimate nell’aldilà. A garantire l’immortalità del defunto erano anche delle statue a sua immagine: se il processo di mummificazione non avesse funzionato questi busti avrebbero svolto la funzione di richiamare la memoria e garantire il trapasso. I primi sarcofaghi erano molto stretti ed il cadavere era sistemato su un fianco rivolto verso l’ovest, dove il sole tramonta e dove le anime si ritirano. La preservazione del corpo per l’eternità

Il culto dei morti, che ha reso famoso l’antico Egitto presentava una correlazione originale con l’evoluzione della concezione della sanità. Gli egizi, sin dalle loro origini, avvertirono la necessità di studi medici collegati al profondo senso della morte, del futuro e dell’Aldilà, quasi come se il contingente (la vita) trapassasse nell’assoluto (nell’immortalità). Nel Libro dei morti, Capitolo 169 si legge: “…che il corpo imbalsamato e intatto rimanga preservato per l’eternità”, mentre tutti i papiri che trattano le tecniche d’imbalsamazione richiamano sistematicamente, da un lato, le operazioni che bisognava materialmente eseguire sulla salma, dall’altro, si enunciano le formule religiose e magiche da recitare durante le singole operazioni, collegando il rito alle conoscenze astronomiche elaborate nei templi stessi. Ovviamente questa seconda parte era molto più lunga. L’attenzione verso i problemi relativi allo stato di salute sono testimonianza di come, nella società egiziana, un sufficiente livello di ricchezza collettiva abbia permesso di liberare energie verso settori non produttivi, di raggiungere una maturità culturale (nel momento in cui si pone il problema dell’uomo e della Sua esistenza), ma anche di dare avvio a un processo di decadenza, nel momento in cui l’eccesso di attenzioni non riesce a estrinsecarsi in risultati reali, ma implode in se stesso producendo rituali ed esigenze utili solo alla conservazione degli interessi connessi.

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