Sanità, lo stress che "divora" professionisti e pazienti
di Giuseppina Viberti e Germana Zollesi
Ormai da tempo i sindacati del mondo sanitario e molte società scientifiche svolgono periodicamente delle indagini (le cosiddette Survey) sul problema della “sindrome da burnout” che coinvolge da tempo il mondo sanitario in tutti i paesi occidentali. Il termine burnout viene ormai utilizzato per sottolineare qualsivoglia situazione di stress nervoso, disagio, alla stregua di un superlativo per accentuare i problemi cui si vuole dare enfasi.
Afflitti dalla sindrome da burnout
E’ un insieme di sintomi (ansia, depressione, insonnia e altri disturbi clinici) determinati da uno stato di stress permanente con il quale secondo la survey della Fadoi (Federazione medici internisti ospedalieri) devono convivere nel proprio lavoro il 52% dei medici e il 45% degli infermieri che prestano la loro opera nei reparti ospedalieri di medicina interna. In entrambe le fattispecie l’incidenza dei casi è circa il doppio tra le donne dove permane la difficoltà di conciliare il lavoro con la famiglia (oltre alla retrograda visione che le considera soggetto debole e, quindi più facilmente aggredibile).
Da sottolineare anche il fattore età: sotto i 30 anni la percentuale del burnout è del 30,5%, individuando una profonda difficoltà delle nuove generazioni a reggere le condizioni di vita che si sono andate a creare negli ambienti dediti alle cura (che invece necessiterebbero di grande tranquillità e serenità).
Il fenomeno non riguarda solo i soggetti coinvolti, ma tutta la popolazione se, come risulta dagli studi internazionali raccolti dalla Fnopi (Federazione degli ordini infermieristici), circa il 57% degli errori clinici commessi in un anno sia in qualche modo legato ad esso.
Inoltre la letteratura scientifica ha raccolto molti dati che correlano le malattie professionali al burnout: il rischio di infarto è circa 2 volte e mezzo superiore in chi lo accusa, le minacce d’aborto vanno dal 20% se l’orario di lavoro è entro le 40 ore settimanali e sale fino al 35% quando le ore diventano 70 alla settimana. Situazione comunque rara, in quanto nel nostro Paese la maternità è particolarmente protetta nel mondo sanitario.
Infine quasi il 50% dei medici e infermieri in burnout pensa di licenziarsi entro l’anno anche se esiste l’altra faccia della medaglia (secondo la survey di Fadoi): nonostante le difficili condizioni di lavoro la maggioranza dei medici e degli infermieri sente di aver affrontato efficacemente i problemi dei propri pazienti, di influenzare positivamente la vita delle altre persone con il proprio lavoro e si sente bene dopo aver lavorato con i propri pazienti (quasi l’80% dei medici e degli infermieri ha dato queste risposte positive quando chiamato ad esprimersi).
Le risposte dell’organizzazione sanitaria
Come spesso accade, il sistema sanitario viene analizzato a “compartimenti separati” senza prendere mai in considerazione che il sistema ospedaliero o territoriale per funzionare adeguatamente e rispondere ai bisogni di pazienti sempre più anziani e complessi ha bisogno di molte figure professionali (in termini industriali: linee di produzione aderenti alle specifiche necessità) che sono sottoposte a stress correlato al lavoro come accade per i medici del pronto soccorso, gli internisti, gli anestesisti, gli infermieri di tutte le strutture di degenza, ecc.
La cura di un paziente è data da un susseguirsi di attività diagnostico-terapeutico-riabilitative che comportano un interazione continua tra i reparti e i servizi: senza una radiologia, un laboratorio analisi, un’anatomia patologica operativi giorno e notte il funzionamento del sistema sarebbe gravemente compromesso e spesso una carenza manageriale porta il singolo operatore a farsi carico di superare gli intoppi, ma ciò accresce il suo stato d’ansia e di preoccupazione.
Naturalmente le difficoltà che tutte le categorie operanti nel sistema devono affrontare quotidianamente vengono osservate con distacco in quanto dai media e dai cittadini vengono quasi sempre identificati il “medico e l’infermiere” come i soli operatori dedicati alla cura del paziente (il cosiddetto front office).
Le carenze manageriali e lo scarso livello di coordinamento con la programmazione universitaria contribuiscono a rendere spesso scoordinato e disarmonico lo scenario operativo: poco note al grande pubblico sono le carenze dei medici patologi clinici e anatomo- patologi per la diagnostica di laboratorio, per non parlare dei tecnici di laboratorio e di radiologia che sono carenti in tutte le aziende sanitarie. Sottovalutate sono pure le condizioni in cui operano gli operatori socio sanitari (OSS), spesso le persone che trascorrono più tempo vicino ai pazienti in quanto chiamate a svolgere tutta una serie di attività falsamente indicate come “minori” (cure igieniche dei pazienti, distribuzione e somministrazione dei pasti, consegna e ricevimento dei campioni biologici, pulizia di attrezzature quali frigoriferi, congelatori, centrifughe, cappe indispensabili per l’attività diagnostica, ecc) che sono invece indispensabili.
Critiche ingenerose al personale del Pronto soccorso
Problemi di sovraffollamento nei Pronto soccorso sono ormai endemici e, tranne gli anni del coronavirus, hanno sempre caratterizzato la gestione della cosa sanitaria in quanto il sistema è sempre risultato carente nel predisporre valide alternative sul territorio e sulle alternative al ricovero. Ma se sollevare critiche risulta quanto mai legittimo ed opportuno (e in Italia non vi è nessuna forma di censura, neanche quando si superano i limiti di decenza e di buon gusto), un certo livello di critica o di rivendicazione può, nel lungo periodo, esasperare gli animi, anziché risolvere i problemi.
In Italia quasi la metà del PIL è assorbito, direttamente o indirettamente, dal welfare ed è difficile che nel breve periodo le risorse destinate possano aumentare significativamente: l’unica ipotesi percorribile è concentrare l’attenzione sull’uso razionale del disponibile. Ma il Pronto soccorso per la sua imprevedibilità e irrazionalità rappresenta un arduo banco di prova del funzionamento del sistema sanitario, anzi ne costituisce l’anello debole.
Nonostante la crucialità, verso il personale del Pronto si sono organizzati dei processi mediatici che poi si tramutano in continui atti di accusa, mentre si sottace il non corretto uso del medesimo, come testimoniano i numerosi codici bianchi che vedono nei Pronto soccorso il modo più semplice per non pagare i ticket, per saltare le code o semplicemente per dare soddisfazioni a fobie al limite dell’immaginario. In questo scenario i pochi operatori che vi rimangono sono sottoposti ad ogni forma di stress compresa quella di vedere i loro colleghi guadagnare più di loro. A loro non viene riconosciuto neanche un valore sociale di eroi, come quello confezionato dai telefilm ed oggi si aggiungono sempre più spesso anche le violenze fisiche: forse, una logica conseguenza di quegli atteggiamenti che hanno insegnato a pretendere tutto e subito, come se fossimo in un paradiso terrestre. Ma così non è, e la realtà ci consegna strutture dove tutti sono pronti a criticare, ma più nessuno a lavorare all'interno di esse.
E’ necessario quindi un processo di revisione totale dell’organizzazione sanitaria con particolare attenzione all’integrazione territorio-ospedale, alla valutazione delle reali necessità di personale in tutte le categorie (OSS, infermieri, tecnici, medici, dirigenti sanitari, amministrativi), alla identificazione chiara e precisa dei compiti del territorio e dell’ospedale, all’appropriatezza delle richieste. Conseguenza di queste analisi è la programmazione universitaria del numero di professionisti necessari nei prossimi anni senza eccedere in alcuni settori a scapito di altri; tutti aspetti che richiedono anche, ma non solo, investimenti sul personale.
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