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Ricetta Draghi: stop all’assistenzialismo industriale. Aspettiamo fiduciosi i fatti

di Claudio Artusi|


Fra i molti fronti chi il presidente Draghi ha aperto nel suo discorso alle Camere, vi è un tema ineludibile. Con il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione e con i ristori il Paese è come un paziente sottoposto in coma farmacologico, in attesa che possa gradualmente riprendere la vita normale. Questo accadrà anche a breve ed il segno più importante sarà la fine del regime del blocco dei licenziamenti.

Mario Draghi dunque preannuncia che il mondo del lavoro verrà diviso in due: da una parte vi sono le aziende che, magari con sostegni mirati, possono stare sul mercato e progettare il loro sviluppo; dall’altro, si dovrà accettare che esistono aziende che per ragioni endogene e/o esogene non hanno un futuro. In altre parole si è ufficializzato la fine dell’assistenzialismo. Il che significa che il mercato torna ad essere il dominus e che il “pubblico” avrà un ruolo ancillare fatto di politiche e non solo di incentivi finanziari. Credo che a nessuno sfugga portata e conseguenze di una tale linea. Nella storia economica ed industriale del nostro paese si tratta di una rivoluzione: non basterebbe un elenco telefonico per elencare i disastri, molti dei quali tuttora in essere, che sono stati generati dall’assistenzialismo industriale. Ora però dobbiamo avanzare di un passo e fare un bagno di concretezza. Chi decide azienda per azienda in quale delle suddette due categorie vengono allocate? Ed in base a quali criteri? Un tempo si produceva un piano industriale, che esaminava settore per settore, individuava le leve competitive occorrenti, creava una mappa di posizionamento strategico. Un tempo, appunto, perché oggi siamo più che mai consapevoli che l’uscita di scena della programmazione industriale nel nostro Paese non è stata frutto di una distrazione, ma della riluttanza (se non aperto rifiuto) a fare scelte nette, in direzioni precise, sottoponendosi al rischio di dispiacere a qualcuno. Ora, però, abbiamo la stretta necessità di fare una operazione ancor più dolorosa e delicata, che ha bisogno di equità e trasparenza. Dunque la definizione dei criteri, una sorta di filtro della serie “passa non passa”, diventa il fattore strategico e politico più importante. L’approccio finanziario (ratio fra indebitamento e fatturato, capitale investito e capitale proprio, ecc.) è forse il più facile, perché facile a misurarsi. È anche però il più semplicistico: sarebbe come scegliere una persona in base alla sua radiografia. All’opposto, l’approccio industriale si basa sul patrimonio umano (skill), produttivo, tecnologico (brevetti ecc). Descrive la potenza del motore, ma non dice l’uso che se ne fa e se ha carburante per procedere in avanti. L’approccio di mercato identifica i comparti a più alti trend di sviluppo. Si potrebbe proseguire nell’elenco, ma credo sia sufficiente per dire che creare criteri di classificazione del posizionamento competitivo delle imprese è compito complesso e non agevole. Immagino anche che sarà un terreno di competizione e scontro fra partiti e vari potentati locali. Se ci focalizziamo poi, sul segmento di imprese da non salvare, ricordo che Draghi dice che non si aiuteranno le imprese, ma non si lasceranno soli i lavoratori. E qui interviene la formula magica di sempre ” politiche attive del lavoro”. Piccolo, ma non marginale particolare: sono fallite quasi tutte. Forse sarà il caso di capire perché! E comunque ai milioni di lavoratori che vedranno chiudere i cancelli delle loro imprese occorrerà offrire una concretezza che superi titoli dal vago sapore di slogan… In queste settimane vado ripetendo che diffido dei governi che evitano di affrontare i temi divisivi, perché mai come ora occorre fare scelte e prendere decisioni, senza inseguire unanimità paralizzanti. Inevitabile che la way out, la via d’uscita, dalla Covid-19 sarà un grande banco di prova per la capacità di sintesi del governo e per la disponibilità delle forze politiche a pagare prezzi di impopolarità

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