Quirinale e Palazzo Chigi: continuità oggi fa rima con rinascita
di Claudio Artusi|
Oggi più che mai, facciamo i conti con l’incompiutezza del passaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica ad una nuova forma di funzionamento democratico.
Ci siamo voluti illudere, a suo tempo, che bastasse la decapitazione di una classe dirigente per rigenerare il nostro sistema democratico, ma i fatti hanno fatto cadere in fretta questa illusione. All’opposto, è emersa una nuova forma di rappresentanza degli interessi pubblici, che per semplicità chiamiamo leaderismo, che ha spostato il cuore del potere politico dai partiti alla persona.
Le due espressioni più evidenti del fenomeno sono state Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Nascendo privi di una base ideologica e culturale entrambi hanno sentito il bisogno di essere affiancati da un pezzo di intellighenzia (ad esempio il professor Giuliano Urbani e il filosofo e accademico Marcello Pera per Berlusconi e il giurista Gianfranco Milvio per Bossi) che hanno ancorato e legittimato la leadership a dei modelli socio/economico/istituzionali funzionali alla propaganda elettorale e alle istanze di cambiamento che provenivano dal Paese (il liberalismo in un caso, il federalismo in un altro).
Questa esigenza si è via via annacquata (anche perché essere ancorati a tesi politiche forti costringe alla coerenza e quindi diventa un vincolo) ed è rimasto il personalismo privo di ogni retroterra. Non a caso i nuovi leader che si sono affacciati sulla scena (Salvini, Meloni, Grillo) non esprimono tesi politiche, non hanno paternità culturali, ma vivono della capacità di intercettare ed interpretare al meglio la volontà popolare del momento (ambendo ad essere non uomini di stato ma dei capi popolo).
Siamo rimasti ipnotizzati anche noi osservatori ed elettori dal fenomeno, tant’è che, anche in termini espressivi, osserviamo e giudichiamo la persona e non il modello politico che rappresenta, per il semplice motivo che non esiste. Nei momenti di crisi grave, gravissima di questo paese si è ricorsi all’uomo della provvidenza, “rintracciato” – non a caso – tra esponenti che godono di stima e prestigio all’estero: Mario Monti nel 2011 e Mario Draghi nel 2021. Il motore primo è stato la Presidenza della Repubblica, gli alleati europei e il mondo della finanza sono stati il carburante e questo in entrambi i casi.
L’esperienza di Monti dimostra che non basta un intervento temporaneo ed estemporaneo. Occorre che il mandato includa il varo di un piano di riforme che renda definitiva ed irreversibile la normalizzazione del paese. A differenza del presidente Monti, il presidente Draghi ha una leva fortissima nelle sue mani: tutte le riforme che siamo obbligati a fare sono una condizione per il PNRR. Dunque,queste riforme nascono in ambito governativo e si legittimano in ambito parlamentare. Il suo mandato dunque potrà considerarsi concluso solo quando tutto ciò sarà compiuto.
In questo percorso Mario Draghi non è stato e non dovrà essere solo con le sue pur grandi capacità: il presidente Mattarella è stato il garante, nel Paese e all’estero, della coerenza e della correttezza istituzionale e costituzionale. Per queste ragioni , nelle note politiche che precedono la presente, ho ritenuto di insistere sulla continuità e sulla stabilità. Questo tempo è (potrebbe essere) altresì prezioso per i partiti, per ridare dignità culturale e politica al retroterra dei programmi e delle azioni, in modo che alla contesa elettorale si giunga con la concreta possibilità di scegliere in modo consapevole. Soltanto da quel momento in poi… potremo fare a meno degli uomini della provvidenza.
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