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Quella mattina del 16 marzo '78 Il rapimento di Aldo Moro

Aggiornamento: 23 lug

di Vice


La mattina del 16 marzo 1978 nulla è più come prima per l'Italia, neppure lo sconcerto abituale di quei giorni di piombo. A Roma, in via Fani, la lotta armata fa il cosiddetto "salto di qualità" nella sfida allo Stato e nella crudeltà verso le persone: alla vigilia della fiducia del nuovo governo in Parlamento con l'appoggio esterno del Pci, il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro viene rapito da un commando delle Brigate Rosse. I cinque uomini di scorta sono annientati. Sotto centinaia di colpi di mitraglietta cadono il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l'appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, il vicebrigadiere di Ps Francesco Zizzi, gli agenti di Ps Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. E' l'effetto sanguinario della "geometrica potenza" di fuoco con cui Franco Piperno, uno degli esponenti più influenti di Potere operaio, definirà l'azione.

Il numero uno delle Br, Mario Moretti, scriverà anni dopo dal carcere: "Progettando il sequestro sapevamo che lo scontro sarebbe stato durissimo, ma che sul piano della 'propaganda armata' sarebbe stato un successo".

Ma il calcolo di Moretti non è minimamente ancorato alla realtà. Nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, la reazione è immediata e di forte contrasto alla follia terroristica. La gente si riserva istintivamente nelle piazze per dimostrare la sua ferma opposizione alla strategia delle Brigate rosse. L'Unità, l'organo del Partito comunista italiano scrive:

"Se criminali che hanno ideato e attuato il tragico agguato calcolavano di impaurire e dividere gli italiani, di creare uno stato di smarrimento e di confusione, così da scavare un solco tra le masse e le istituzioni democratiche, ebbene si sono sbagliati".

Un tragico errore che lo stesso Moretti ammetterà in un'intervista: "C'è stata un'ingenuità sulle nostre supposizioni, ci siamo ingannati al limite dell'autolesionismo. Quando il Pci si compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata".

Aldo Moro fu tenuto prigioniero per 55 giorni. Su quella prigionia è stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto, ma continuano a permanere zone d'ombra e di mistero, soprattutto su chi abbia voluto la morte del leader democristiano, oltre ai suoi esecutori che lo uccisero il 9 maggio, facendo ritrovare il suo cadavere all'interno di una Renault 5 di colore rosso in via Caetani. Cinquantacinque giorni di indagini, depistaggi, speranze, delusioni, in cui entrarono e uscirono dalla porta principale o da quella di servizio centinaia di figure e, in totale anonimato, alcuni figuri quasi tutti decisivi nel tragico epilogo della storia. Lo Stato reagì sul piano investigativo con la quantità: 72.460 posti di blocco, 37.702 alloggi perquisiti, 6.413.713 persone e 3.383.123 automezzi controllati. I tanti, troppi punti interrogativi sulla fine di Aldo Moro danno, all'opposto, la misura della qualità. Una qualità direttamente proporzionale, purtroppo, alla volontà di capire fino in fondo quegli anni, scorticandoli dai preconcetti, prevenzioni e dai luoghi comuni, proprio in onore del sacrificio di uomini della grandezza di Aldo Moro.

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