Punture di spillo: “Salario minimo e reddito universale, verso l’uguaglianza”
Aggiornamento: 19 set 2022
a cura di Pietro Terna
Proviamo a spiegare le disuguaglianze [1] giocando con un gruppo bambini, ad esempio con una classe delle elementari composta da venti alunni. Facciamo passare fra i banchi un sacchetto di barrette di cioccolato, ogni bambino può prenderne una. Nel sacchetto però non avremo messo 20 barrette, ma solo 15. Alla fine della distribuzione cinque bambini resteranno a mani vuote. Dopodiché si discute: lasciamo le cose come stanno? Introduciamo delle regole per redistribuire le barrette? Con azioni volontarie o obbligatorie? E così via.
In questo modo si scopre come si fa a discutere di disuguaglianza e, aggiungo io, si può scoprire che è più facile parlarne con dei bambini che con degli adulti. Qualche lettore sta certamente pensando che l’esempio del gioco non regge, perché le differenze derivano dal merito, non dalla fortuna. Uhm, anche alla nascita?
Lasciamo il gioco. Dimentichiamo ciò che siamo abituati a considerare normale: una persona nasce ricca e un’altra povera, nella stessa città o in due posti lontani nel mondo. Da sempre ho in mente che la giustizia sociale richiederebbe un ben diverso inizio per tutti.
A ogni persona – per il fatto stesso di essere nata – dovrebbe spettare una dotazione di risorse che consentisse una sopravvivenza decorosa, per tutta la vita. Sento il coro: impossibile! Certo che se non si inizia mai, per gradi, per fasce di anni, non succederà mai. Esiste una grande studioso che è il teorico di questa costruzione: si tratta di Philippe Van Parijs (nella foto a sinistra), di cui consiglio l’importante volume, scritto con Yannick Vanderborght, “Il reddito di base. Una proposta radicale”. Molto interessante anche una sua bella conferenza[2] in italiano, che consiglio vivamente, via YouTube. Si tratta di un cambiamento ultra radicale, certo da realizzare per gradi e nel tempo, rovesciando la folle realtà dell’1% della popolazione che eguaglia in ricchezza il restante 99%. Una impostazione totalmente diversa, radicalmente diversa, dallo strumento del reddito di cittadinanza che abbiamo conosciuto in Italia in questi anni: una forma di sussidio di disoccupazione, da non disconoscere, ma da rivedere profondamente. Una questione importante è l’eliminazione, sopratutto dall’immaginazione di molti “benpensanti”, del conflitto con il lavoro retribuito. Non regge la semplificazione “non trovo chi viene a lavorare da me perché hanno il reddito di cittadinanza e stanno sul divano”. Il limite familiare del reddito di cittadinanza non è lontano da 500 euro al mese e non è certo equivalente a uno stipendio. A quel punto si dimentica il divano: “ma lavorano in nero”. Vero in molti casi, ma chi li fa lavorare in nero? Il reddito di base universale va a tutti, che lavorino oppure no, anche a Elon Musk che se paga le imposte in modo realmente progressivo, non se ne accorge proprio. Attenzione: e se 500 euro fossero invece effettivamente equivalenti a molti stipendi? Proprio quel tipo di retribuzioni percepite dai “working poors” cui si è rivolta, all’inizio di giugno, l’Europa, scandalizzando, oltre ai soliti benpensanti, le corporazioni, mai abolite nella realtà? La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dichiarato: «Le nuove norme tuteleranno la dignità delle persone, faranno in modo che il lavoro renda». Cioè sia retribuito adeguatamente, per «un livello di vita decente». Con l’accordo fra Consiglio Ue e Parlamento sulla direttiva sul salario minimo (legale e non), per la prima volta la Ue entra nel merito della qualità e dei parametri per definire le retribuzioni, pur non scavalcando le competenze in materia, difese gelosamente dagli Stati. Forse è un po’ leggero, come intervento, ma è stato sufficiente a scatenare un discreto numero di teatrini nel nostro paese. Proviamo a guardare più in là, ricordandoci di Keynes[3] che nel 1930, in piena crisi, immaginava che nel 2030 la prosperità sarebbe stata raggiunta, con un impegno di lavoro di quindici ore alla settimana per garantirla. Forse il 2030 è troppo vicino, soprattutto se si pensa al mondo intero, ma la direzione deve essere quella. Quali le condizioni, secondo Keynes? Che la popolazione non cresca troppo; che si sappiano evitare le peggiori guerre civili e internazionali; che si lascino operare gli scienziati, i tecnici e gli organizzatori; che si continui per qualche tempo ad accumulare capitali.
Il finale di quel saggio è simpaticamente autoironico. Lo riporto nella piacevole traduzione[4] dell’economista Sergio Ricossa (foto a sinistra): “(…) però, non sopravvalutiamo l’importanza del problema economico, né sacrifichiamo alle sue supposte necessità altre questioni di ben maggiore e duraturo significato. Esso dovrebbe costituire materia per specialisti, come l’odontoiatria. Se gli economisti riuscissero ad ottenere di essere considerati come umili e competenti persone, a livello dei dentisti, questo si che sarebbe splendido”! Come si fa a produrre in quel mondo dell’abbondanza, dove il reddito universale non può che essere realtà consolidata? Lo anticipava lucidamente, in un testo[5] di trentacinque anni fa, lo stesso Ricossa: Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina: resto d’accordo con lui, dissento sul seguito, che qui non ci importa. Delegare alla macchina non ci deve impoverire di funzioni gradite, ci deve piuttosto liberare dalla costrizione, dalla fatica, dalla noia. Nessun essere ragionevole vuole il pieno impiego ad ogni costo: il lavoro si giustifica soltanto se serve a produrre cose buone per sé e per gli altri, e meglio ancora se mentre lo compiamo proviamo interesse e piacere, ciò che la macchina non prova. È un punto di incontro con Hannah Arendt che nel suo libro “The Human Condition”, del 1958, tradotto con il titolo “Vita activa. La condizione umana”, nel 1964 per i tipi di Bompiani (raccogliendo limitatissima attenzione all’epoca in Italia), riflette sul ruolo del lavoro nella società, anticipandone con assoluta chiarezza il cambiamento di quantità e contenuto. Con il termine vita activa si proponeva di designare tre fondamentali attività umane: quella lavorativa (retribuita), l’operare e l’agire, come azioni nobili con e per gli altri. Intanto, prima Gualtiero Bertelli6 e poi Francesco De Gregori e Giovanna Marini[7], con “Nina Ti Te Ricordi”, cantavano e possono continuare a cantare: Amarse no s’e no un pecato Ma ancuo el s’e un lusso di pochi E intanto ti Nina ti speti E mi so disocupà E intanto ti Nina ti speti E mi so disocupà _______
[1] Devo l’idea a un articolo di Letizia Pezzali, su Domani del 6 giugno 2022: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/gioco-per-spiegare-disuguaglianze-bambini-istruzioni-cqedjqpx
[2]https://www.youtube.com/watch?v=OeP2V3LZnvs [3] Keynes, J.M. (1930). Economic Possibilities for our Grandchildrenin J.M. Keynes, Essays in Persuasion. New York: W.W.Norton & Co, http://www.econ.yale.edu/smith/econ116a/keynes1.pdf [4] Ricossa, S. (1966). L’economista ispirato. Torino: Edizioni dell’Albero. [5] Ricossa, S. (1987). Grazie, Robot, in J. Jacobelli (a cura di), Aspettando Robot. Il futuro prossimo dell’intelligenza artificiale. Bari: Laterza, http://www.brunoleoni.it/grazie-robot [6]
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