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Psicosociologia del tifo, festa, diritti e limiti

di Germana Zollesi e Cinzia Bosso* |

Plinio il Vecchio, scrittore, filosofo naturalista, comandante militare e governatore provinciale romano, morto nel 79 d.C., non riusciva a capire perché tanto fervore, non per il gesto atletico, ma per la tunica. Si perdeva così un momento di forte emozione (per gli antichi greci una “febbre”) cui millenni dopo si ripete in occasione di ogni incontro sportivo. In tempi moderni Pier Paolo Pasolini definiva il tifo come “una malattia giovanile che dura tutta la vita”. Eppure il genuino entusiasmo che circonda la passione sportiva fa sembrare snob chi non si lascia trascinare nel vedere il suo beniamino o la sua squadra bene comportarsi e vincere: quando poi a giocare è la nazionale anche Sandro Pertini, e non solo lui come inquilino del Quirinale, diventava un tifoso come tutti noi. Aspetti sociologici

Il sociologo Abraham Harold Maslow definiva una scala dei bisogni dell’uomo dove quello di affiliazione/appartenenza venivano subito dopo i bisogni fisiologici e di sicurezza. L’appartenenza ad un gruppo, quale manifestazione del bisogno irrinunciabile per un essere umano, deve trovare soddisfazione non solo nei rapporti parentali o nei gruppi di lavoro ma, sempre più, nell’identificarsi in un gruppo che faccia sentire il soggetto, attore protagonista di un progetto volto a tutelare le sue aspettative. E cosa meglio di un coro da stadio soddisfa questa esigenza: è un gruppo che si muove all’unisono e fa sentire il singolo parte del gruppo (del suo gruppo). Aspetti psicologici

Il lasciarsi trascinare nel seguire una competizione sportiva rappresenta una formidabile rinuncia al principio di realtà (per alcuni l’oppio dei popoli o una religione laica). Il tifo si sottrae cioè alle logiche della quotidianità, concretizzando la possibilità di uscire al di fuori di sé, per entrare in una narrazione più ampia e cedere all’imprevisto, alla mancanza di controllo, alla vertigine, ben sapendo che in caso di sconfitta si prova inevitabilmente una profonda delusione. Non vi è dubbio che il tifo sportivo non è direttamente correlato alla pratica sportiva e all’amore per lo sport (lo stesso gesto atletico produce sensazioni diverse a seconda di chi lo osserva), ma piuttosto è una complessa interazione fra la psicologia del singolo e alcuni aspetti della società. Diversamente dai fans di un cantante o di un personaggio pubblico, il tifo sportivo è legato all’agonismo e quindi anche a situazioni spiacevoli e negative quali la sconfitta (riflettendo così la parabola della vita). Quando poi la competizione si allontana da fenomeni oggettivi e misurabili e tanto più lo sport è di squadre numerose, tanto più il soggetto da spettatore si trasforma in tifoso perdendo di lucidità e la fine della partita rappresenta anche il venir meno di una propria sofferenza (però chi può dire di non aver sofferto durante la recente partita della nazionale azzurra contro la Spagna? Meno accettabile è l’aumento della violenze domestiche dopo una sconfitta sportiva). La psicologia spiega come la valutazione di ciò che avviene in campo è sistematicamente viziata da una percezione cerebrale di parte: i tifosi vedono solo quello che vogliono e di conseguenza costruiscono visioni scollegate dalla realtà. Aspetti clinici

Neurologicamente se si prendono due coorti di soggetti che tifano per squadre contrapposti le regioni cerebrali deputate alla visione si comportano nello stesso modo (i due gruppi vedevano le stesse azioni), le aree riservate alle funzioni cognitive reagiscono in maniera assai diversa. Avvicinandoci agli studi filosofici, si può affermare che non esistono fatti, ma solo interpretazioni e l’uomo con la sua individualità ne esalta questi aspetti. Due gruppi che guardavano la stessa partita, al momento di un contatto dubbio vedevano due cose diverse: gli uni erano sicuri del rigore, gli altri della simulazione. Ed entrambi erano in buona fede. Inconsciamente percepiamo le azioni della nostra squadra del cuore diversamente da quelle compiute dalle altre. Aspetti che non vorremmo vedere

L’irrazionalità del tifo (che forse è anche una componente del suo fascino) non deve però portare a degenerazioni incontrollate. Purtroppo sono numerosi gli episodi che offendono la dignità degli sportivi, non ultimi le condizioni in cui hanno lasciato le strade delle città piemontesi e non, dopo l’ultima vittoria che ha visto anche atti di inutile vandalismo ai danni di beni pubblici. È comprensibile che dopo un prolungato lock down ci sia la voglia di festeggiare, di fare qualche cosa di pazzerello, ma se si distruggono beni pubblici si supera un’asticella che porta alcuni soggetti a commettere atti che con lo sport non hanno niente da spartire. Domenica tiferemo tutti a squarciagola, è un’emozione che non vogliamo perdere: ma rompere una panchina non si capisce quale emozione possa produrre. *Sindaco di Orbassano

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