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Piccoli “ergastoli finanziari” crescono

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi

Il bisogno di acquisire costantemente risorse finanziarie superiori alla ricchezza realmente prodotta, ci porterà alla realizzazione di un “ergastolo finanziario”, cui siamo tutti condannati? Probabilmente no. Sarà sufficiente un default, un prolungato periodo d’inflazione o di svalutazione, qualcuno che paghi i debiti degli altri, perché ha convenienza a mantenere in vita il sistema o perché la popolazione che li ha generati è sufficientemente ricca da sostenerne i costi. Tutte ipotesi plausibili, ma che lasciano prevedere come l’economia, che dovrà trovare le forze per reagire al coronavirus, sarà sempre più assoggettata ai parametri della finanza internazionale, con un’inevitabile perdita di sovranità da parte dei singoli, siano essi Stati o Individui. Più vi è bisogno di interventi finanziari, maggiore sarà l’influenza di chi detiene il potere di condizionare detti parametri: Banche Centrali, B.C.E, F.M.I. (acronimo italiano del International Monetary Fund) non molti anni or sono erano soggetti sconosciuti ai più, mentre oggi è palese come il valore dei nostri risparmi e le potenzialità di investimenti dipendano da loro. Nel bene, quando Mario Draghi pronunciò la frase clou: “Per salvare l’Euro, faremo tutto ciò che è necessario” e l’euro si salvò. Nel “meno bene” quando, per garantire gli equilibri economici, si ipotizzano manovre necessarie, ma sgradite all’opinione pubblica. Né salvatori, né demoni, ma sicuramente i conti con quella che una volta si sarebbe definita “finanza allegra” occorrerà farli. Non sarà certo una sentenza di “prigione a vita”, ma considerati i debiti che si andranno a sottoscrivere, il rischio è di ritrovarci in “gabbie” che condizioneranno significativamente il nostro status economico nei prossimi anni, se non si procederà a qualche ricalibratura. Per continuare la metafora, agli spendaccioni e agli spreconi, almeno un braccialetto elettronico si dovrà pur ipotizzare! Una questione di democrazia Il problema non è solo economico, ma entra nella sfera etica, nel momento in cui ci si illude di poter disporre di risorse illimitate tali da giustificare anche gli sprechi che nessuna dottrina morale o filosofica può tollerare. Il concetto comincia ad essere ampiamente condiviso quando si parla di spreco alimentare (secondo SWG-Sole24ore, lo 0,88 per cento del nostro PIL è cibo che gettiamo nella pattumiera) o di cattivo uso delle risorse naturali (con conseguente buco nell’ozono). Meno chiaro quando si parla di finanza, dove a sentire gli esperti è possibile tutto e il contrario di tutto (come i virologi, quando parlano di Covid-19). Se già la matematica è un’opinione, figuriamoci l’economia, da sempre considerata una disciplina umanistica, perché profondamente collegata al comportamento degli individui siano essi uti singulus, uti cives (titolari di un pubblico interesse di carattere generale ) o uti societas (inteso quale interesse superiore della società). Per i latini “uti singulus ita societas” voleva indicare “come è il singolo così è la società”, nel senso che la società non può essere pensata indipendentemente dai singoli individui che la compongono. Ed anche la “risorsa finanza”, ossia l’uso degli strumenti finanziari, deve essere rapportata sia agli interessi del singolo, sia a quelli della società nel suo complesso. L’anteporre l’interesse collettivo all’interesse del singolo è sicuramente la base della convivenza civile, ma il problema si sposta nel definire chi può stabilire quando si è in presenza di un interesse collettivo. Se, a decidere, è un’autorità democraticamente eletta, trattasi di una manifestazione della volontà popolare, se a decidere sono solo i “tecnici”, la sovranità viene inficiata. I problemi per l’Italia La “rivoluzione non voluta” provocata dal coronavirus ripropone dunque la tematica su chi e fino a che punto un soggetto può decidere sull’altro, dando per scontato che comunque, dai primi capi tribù del Paleolitico ad oggi, ciò accade e più che contrastarlo va gestito. Il problema è “come”? Qualsiasi misura finanziaria adottata produce effetti e presenta un costo che prima o poi qualcuno dovrà sopportare e il futuro della società sarà inevitabilmente condizionata dalle scelte effettuate. E l’Italia, detto per inciso, partendo da un deficit di 2.443 miliardi di debito pubblico, il 155,7 per cento del PIL, dovrà correre con una zavorra molto pesante. Se si potrà disporre di maggiori risorse finanziarie, ciò non deve portare a costruire altre “gabbie” per i risparmiatori, ma a costituire un’occasione per rivedere e razionalizzare gli asset strutturali della nostra società che, avendo la produttività più bassa d’Europa (insieme alla Grecia), ne ha quanto mai bisogno. I criteri di ripartizione delle maggiori risorse finanziarie che saranno rese disponibili dalla solidarietà europea, non potranno basarsi esclusivamente su una logica di tipo emergenziale, ma selezionare gli interventi in base alla loro appropriatezza e alla loro efficacia, per non tornare al semplice piè di lista: questo tipo di attenzioni dovrebbero essere prestate sia in sede di programmazione delle attività che in sede di valutazione dell’attività prodotta. L’esperienza dimostra però un certo scollamento tra attività programmate e attività erogate, a riprova che i due criteri (programmatorio e remunerativo) non sono sempre in sincronia. Che tipo di società vogliamo? Il coronavivrus ha poi riportato d’attualità un altro criterio: quello del budget o del fatturato storico. Il dover indennizzare le aziende per la perdita di reddito obbliga a valutare, da un lato, il fatturato (per la precisione, i ricavi storici), dall’altro il quantitativo di risorse necessarie per la ripresa. Il primo parametro è oggettivizzabile, rifacendosi alle dichiarazioni dei redditi (e così forse si riuscirà a premiare chi si è comportato correttamente), il secondo suppone un ragionamento su quale ruolo potrà esercitare una determinata attività nel prossimo futuro. Superata la prima inevitabile e quanto mai auspicabile, fase dei “soldi a pioggia”, si dovrà avviare una riflessione su quali imprese sono meritorie (chi presenta produzioni etiche e spillover, chi non inquina, chi ha avviato lo smartworking, chi è dedito a produzioni indispensabili per lo sviluppo degli equilibri socioeconomici) e, prima ancora, verso quale tipo di società ci si vuole indirizzare. Due secoli fa, un’altra rivoluzione tecnologica stava per “abbattersi” sul tranquillo Piemonte: quella del Gas (o “gasso” come veniva definito allora). L’impatto più evidente era quello offerto dall’illuminazione pubblica: prima 481 lampioni ad olio o a petrolio tentavano di dar luce a Torino come potevano, con il gas invece la possibilità d’illuminare, quasi a giorno, le vie cittadine, i laboratori artigianali, le abitazioni… diventava possibile, oltre che estremamente pratico. Di fatto, è come se si fossero allungate le giornate: si poteva lavorare più a lungo oppure soffermarsi fino a tarda ora ai caffè. A cambiare, era lo stesso modo di vivere dei “bugia nen” che, da allora, non poterono più accampare la scusa dell’oscurità per rimanere, nelle loro abitazioni. Non tutti furono immediatamente entusiasti di questo progresso: molti erano spaventati dal nuovo e alcuni vedevano in queste diavolerie un pericolo per la propria incolumità (così come oggi il dover cambiare modalità di vita e di lavoro spaventa chi vive grazie a rendite di posizione). I più acerrimi nemici del gas erano i commercianti, all’ingrosso e al dettaglio, degli oli e del petrolio per lampade. Gli scontri furono inevitabilmente cruenti… Chissà chi vincerà oggi nell’assalto alla diligenza dei contributi a fondo perduto: i venditori di candele o i distributori del “gasso”?

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