Pd, gli "occhi di tigre" soffrono già di cataratta
di Stefano Marengo
Chiunque stia seguendo il dibattito postelettorale interno al Partito Democratico non può che nutrire la sensazione di avere di fronte qualcosa di surreale. Nel corso dell’ultima Direzione nazionale del partito innumerevoli dirigenti hanno mosso forti critiche alla linea politica seguita da Letta e ciascuno di loro ha lanciato accorati appelli al “coraggio di cambiare”, nella consapevolezza che il Pd deve ritrovare la propria ragion d’essere. Tutte cose ampiamente condivisibili, si dirà. Peccato però che, non più tardi del 25 luglio scorso, nemmeno uno di quei dirigenti fosse intervenuto per segnalare il proprio dissenso rispetto alle proposte del segretario in materia di alleanze e strategia elettorale.
La relazione di Letta fu anzi approvata all’unanimità dalla Direzione. Viene da chiedersi dove fosse allora il coraggio, ma la risposta appare ahimè fin troppo scontata: con le liste ancora da discutere, non sarebbe stato molto saggio mettersi in contrasto con il leader e rischiare di perdere una candidatura in posizione eleggibile. Perché sì, va bene gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma con le dovute garanzie.
Quando si teorizza la necessità di un cambiamento occorrerebbe avere le idee chiare e, ancora prima, la credibilità intellettuale e politica per guidarlo. Due caratteristiche che oggi, dalle parti del Nazareno, scarseggiano. E infatti i tanti buoni propositi cullati e sospirati nelle scorse settimane sono già svaniti come parole al vento, come dimostra il fatto che il primo atto concreto del Pd nella nuova legislatura è stata la riconferma delle capogruppo uscenti, Debora Serracchiani alla Camera e Simona Malpezzi al Senato.
Evidentemente, contro ogni logica sportiva, "squadra che perde non si cambia". Ma qui siamo nella politica, anzi nel Pd. Infatti, nel volgere di un mese o poco più, al Nazareno si è passato dagli “occhi di tigre” alla “mossa del gattopardo”, o meglio alla “tanatosi dell’opossum”, visto che finora non si è dato corso nemmeno alla finzione di un cambiamento. L’impressione che diviene ogni giorno più nitida è che i tanti appelli ai principi e al coraggio di cambiare non siano altro che chiacchiericcio di sottofondo, mentre la realtà parla di un notabilato di partito dedito all’immobilismo, di una classe dirigente autoreferenziale impegnata soltanto a perpetuare se stessa.
Si riuscirà mai a porre fine a questo circolo vizioso? Dopo tanti anni, sarebbe da stolti continuare a sperare che questo ceto politico sia in grado di autoriformarsi. C’è invece da augurarsi, per riprendere un pensiero di Rino Formica, che una “nuova generazione critica” venga a “colmare il vuoto” in cui ci troviamo e “travolga” finalmente le vecchie oligarchie[1].
Note
[1]https://www.ilriformista.it/intervista-a-rino-formica-kissinger-ha-messo-draghi-in-guardia-dal-capitalismo-imperiale-320260/
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