Oggi tocca all’Afghanistan, ma in lista d’attesa c’è l’Iraq
di Michele Ruggiero|
La doppiezza dei talebani è sotto gli occhi del mondo. E la si addebita alla nuova generazione, come se per l’Occidente fosse una colpa minore, un’attenuazione delle proprie responsabilità, come se l’essere doppi possa attenuare la violenza dell’azione. Gli osservatori internazionali lo hanno messo a fuoco durante i colloqui a Doha, in Qatar: diplomazie di facciata, in cui si spendeva la parola “pace” sul tavolo della negoziazione, mentre in Afghanistan si combatteva la guerra per la conquista del territorio e puntare su Kabul.
Capitale presa con la liquefazione dell’esercito governativo che ha retto non tre mesi, come sostenevano giovedì scorso gli analisti, confidando nella resistenza di 300 mila uomini “addestrati dagli Usa” per la modica cifra di 85 miliardi di dollari spalmati in vent’anni, ma in appena tre giorni. Un collasso politico-militare da cui affiora vittoriosa, tra le pieghe delle numerose e sofisticate spiegazioni, proprio la doppiezza talebana che in questi ultimi mesi ha fatto esercizio di una costante rassicurazione rivolta alle classi meno abbienti e ai militari: appelli sottili a non mettere a rischio la vita, perché non c’era nulla di cui temere e dunque, nulla che valesse un sacrificio estremo.
Le immagini e le corrispondenze da Kabul, infatti, non descrivono (ancora) scene apocalittiche di violenta misoginia contro le donne e di aggressioni fanatiche di stampo religioso ai danni della popolazione, e gli stessi “rastrellamenti” evocati casa per casa hanno molto di immaginifico e poco (al momento) di concreto. Al contrario, l’Apocalisse è visibile soltanto in quello che è diventato il teatro principale dell’avversario occidentale in fuga: il perimetro dell’aeroporto di Kabul con le sue evacuazioni, diventato l’enclave simbolo della disperazione, della paura e, non ultimo, del peccato mortale addebitabile a chi ha occupato per due decenni il Paese senza che si risolvesse uno, almeno uno, dei suoi gravi problemi, dalla sanità all’istruzione su tutti. Ma che per contrasto ha accentuato l’unico problema di cui (purtroppo) la società afghana possiede nella sua antica storia la libera docenza, anche senza aiuti esterni: la corruzione.
Con queste premesse, l’attesa resa dei conti interna – che ci sarà, nessuno si illuda del contrario – è destinata nel quotidiano a diventare secondaria e per questo invisibile agli occhi dei più, sostituita da questioni che lo stesso Occidente contribuisce ad alimentare e diffondere sui media: il ruolo dei possibile partner, Cina, Russia e Turchia, il contenimento del terrorismo dell’Is, i rapporti con il radicalismo religioso, la crisi sanitaria, la pressione dei profughi alle frontiere, tema quest’ultimo che sarà il dividendo in cui confidano come manna dal cielo i partiti xenofobi europei che ai disgraziati e agli ultimi della Terra devono gran parte delle loro fortune elettorali.
Dal 15 agosto, il presidente statunitense Joe Biden si è arroccato in difesa e a difesa del popolo americano cui avrebbe evitato altri lutti, dolori e costi economici, rovesciando anche parte delle responsabilità sul suo predecessore Donald Trump, primo a cercare la mediazione con i talebani. Posizione dignitosa e rispettabile, ma incomprensibile per gli effetti destabilizzanti che si avranno a breve sul teatro dell’Asia centrale. Un errore strategico imperdonabile per media e intellettuali americani. Non si può parlare di effetto domino, ma il rischio abbandono Iraq esiste, perché la natura e la gestione dell’occupazione sono gemelle di quelle dell’Afghanistan. Con un’aggravante: l’invasione dell’Irak è figlia di una colossale menzogna architettata dal vicepresidente americano dell’epoca Dick Cheney ed avallata dal presidente George W. Bush. Di diverso vi sono le date d’inizio occupazione, ma sotto pelle le motivazioni sono identiche: affari al servizio o dell’apparato militare-industriale o dell’industria civile. In entrambe le situazioni ha prevalso l’assenza di un programma di investimenti a beneficio di quei Paesi che desse fiducia di reale cambiamento; altrettanto latitante – e ciò ha reso più vulnerabile l’Afghanistan al vigore talebano – è risultata la costruzione di un processo dal basso di emancipazione collettiva.
In tutto questo la sindrome Usa della guerra del Vietnam, di cui si sono colorite le cronache, è estranea. Da Saigon, semmai, gli Usa se ne andarono via con colpevole ritardo, nascondendo al popolo gli errori di valutazione dei protagonisti dell’epoca: del comandante in capo nel sud est asiatico, il generale Westmoreland, del segretario di Stato McNamara, esitante nel dire la verità sull’esito già scritto della guerra convenzionale, del presidente Johnson timoroso di apparire non abbastanza anticomunista. Nel 1975, gli elicotteri che si alzavano in volo dall’ambasciata americana a Saigon erano come una pagina in bianco che l’Occidente e anche i partiti della sinistra europei erano disposti a scrivere insieme, con la speranza di un mondo nuovo, senza più guerre. Ieri, invece, quei puntini che si staccavano come deboli ventose dagli aerei appena decollati da Kabul, esseri umani nel panico, in preda al terrore, sono apparsi come la definitiva caduta anche della speranza.
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