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“Morgan” non è più tra noi. La morte di Francesco Morini

di Menandro|

La morte all’età di 77 anni ha rubato al mondo del calcio il sorriso e l’affabilità di Francesco Morini. Lo chiamavano tutti “Morgan” per la foga con cui gettava il suo spirito da corsaro in campo, rubando la palla ad avversari più dotati tecnicamente di lui. Arrivò a Torino dalla Sampdoria nel 1969 insieme con Roberto detto Bob Vieri, il numero 10 che per talento ed estro avrebbe dovuto seguire, nell’immaginario collettivo dei tifosi della Vecchia Signora, le orme di Omar Sivori. Vieri, capelli lunghi e basettoni da contestatore, dello stile del “Cabezon” italoargentino aveva molto, dall’atteggiamento strafottente e rissoso in campo all’abitudine ad arrotolarsi i calzettoni alle caviglie. In realtà, anche “Morgan” aveva familiarità con le caviglie, ma con quelle avversarie che sapeva arpionare con grinta mai pericolosa, al riparo dal monito degli arbitri. Un leale combattente da area di rigore. Di professione stopper, biondo e longilineo, con la tendenza a riservare l’eleganza più all’abbigliamento con il suo fisico da indossatore che alla corsa e nella marcatura degli attaccanti, Morini era stato chiamato a prendere il posto di “Berceroccia”, al secolo Giancarlo Bercellino, piemontese di Gattinara, meglio noto agli almanacchi come Bercellino I per distinguerlo dal fratello Silvino, attaccante sempre lì lì per esplodere, ma mai del tutto compiuto, che si sarebbe ritagliato gloria e fama nel profondo sud, con la maglia del Palermo. Con l’acquisto di Morini e di Vieri, presi in cambio di Romeo Benetti e un pacco di milioni (tanti), la Juve di quel fine decennio anni Sessanta voleva scrollarsi di dosso la fama di squadra operaia, o “socialdemocratica” secondo alcuni, priva di talenti, ma coriacea, vogliosa di dare il meglio di sé contro ogni pronostico. Una determinazione che le aveva permesso di vincere, dopo anni di digiuno, uno scudetto all’ultima giornata del campionato 1966-67 a spese dell’Inter di Helenio Herrera. Al comando dei bianconeri c’era un altro Herrera, ma di nome Heriberto, paraguaiano che le cronache sportive identificavano come HH2, noto come il “sergente di ferro” per la sua ossessiva attenzione alla preparazione atletica, in un’epoca in cui i calciatori italiani mal digerivano gli allenamenti. La società aveva cominciato il cambio di pelle e il ricambio generazionale l’anno precedente con gli acquisti del giovanissimo Pietro Anastasi, centroavanti di manovra con l’istinto del goal, campione d’Europa con la maglia azzurra, e del tedesco Helmut Haller dalla lentezza solo apparente, quanto geniale nella visione del gioco e nell’assistenza alle punte. Con Heriberto Herrera sedotto dalle sirene dell’Inter, il presidente Vittore Catella aveva fatto accomodare in panchina Luis Carniglia, un argentino che aveva dato il meglio di sé con il Real Madrid, vincendo la Coppa dei Campioni nelle prime edizioni degli anni Cinquanta. Ma il temperamento di don Luis non si conciliava con la riservatezza sabauda e la disciplina della monarchia della Famiglia. Carniglia sarebbe sopravvissuto appena una manciata di giornate all’ostracismo dello spogliatoio e alle feroci critiche del vicepresidente Giordanetti. Il 21 ottobre 1969, a pochi giorni dalla sconfitta contro il Vicenza, il tecnico argentino che amava la Costa Azzurra, era già un ex, sostituito dal responsabile delle giovanili ed ex giocatore della Juventus Ercole Rabitti, dietro il quale si profilava l’ombra dell’uomo simbolo destinato ad aprire una lunga stagione di vittorie bianconere: Giampiero Boniperti, voluto dall’avvocato Gianni Agnelli nel ruolo di consigliere tecnico. Il campionato avrebbe riservato comunque qualche soddisfazione alle “zebre”, presto in ripresa, con un recupero che le avrebbe portate al terzo posto in classifica, alle spalle del Cagliari di Giggiriva campione d’Italia e dell’Inter guidata da HH2. Non era ancora la Juventus da scudetto, ma era molto vicina ad esserlo. Se non altro, perché si approssimava uno storico cambio al vertice con l’avvento a tutto campo di Boniperti. Dalla squadra del 1969, il talentuoso Vieri fu costretto a fare le valigie, mentre “Morgan” divenne uno dei pilastri fondanti dell’ossatura con cui la Vecchia Signora avrebbe agguantato il tricolore – il 14° della sua storia – nel campionato 1971-72, 30 volte presente su 30 partite come Anastasi, Causio, Salvadore e Spinosi. In quella stagione cominciò il nuovo ciclo della Vecchia Signora, cinque scudetti negli anni Settanta. Francesco Morini avrebbe lasciato la Juventus alla fine del 1980 per dare spazio ad un altro tanto poco elegante in campo quanto efficace nella marcatura dell’attaccante, Sergio Brio. Una tradizione per la Vecchia Signora. Morini ritornò in Galleria San Federico, all’epoca sede della Juventus, l’anno successivo, nella veste di dirigente, prima direttore sportivo, poi team manager, ruoli assolti fino a metà degli anni Novanta con eguale discrezione e vicinanza ai giocatori da renderlo unico dietro alla scrivania come all’interno dello spogliatoio.


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