Moderna, inseparabile e violenta coppia di fatto: radicalizzazione religiosa e secolarismo
di Germana Tappero Merlo |
In una ricerca di Ronald F. Inglehart apparsa sull’ultimo numero di Foreign Affairs, l’autorevole politologo statunitense riprende un tema a lui caro, ossia il confronto fra religione e secolarismo, e afferma che la pratica religiosa e la frequentazione di centri di culto di qualsivoglia credo è drasticamente diminuita in tutto il mondo, soprattutto in Paesi a crescita economica importante e ad alto Pil. Nemmeno il timore dell’attuale pandemia avrebbe riavvicinato gli esseri umani alla fede. Le cause sarebbero per lo più in un’aumentata influenza della scienza e della tecnologia nelle comunità più avanzate, da cui una maggior razionalità e senso critico verso il soprannaturale che hanno finito per allontanare la massa dalla fede e soprattutto dalla pratica religiosa. Un ruolo determinante lo avrebbe avuto anche lo sdoganamento di tabù, soprattutto nel mondo occidentale, sulla vita sessuale e sull’eterogeneità di genere, da secoli cavalli di battaglia delle tradizionali religioni di ogni dove. Unica eccezione a questo declino, secondo Inglehart, è data dal mondo musulmano che mostra maggior attivismo nella pratica religiosa, da cui più vigore e unità di un tempo.
Ma è veramente così? Di fatto, stando all’analisi della politica internazionale, alle azioni e dichiarazioni di suoi numerosi protagonisti di peso strategico importante, da Trump, Putin, Erdogan, Modi sino ad Xi Jinping, passando da soggetti di calibro minore, quali il polacco Kaczynski, l’ungherese Orban sino all’israeliano Netanyahu, Inglehart viene in qualche modo smentito. Negli ultimi due decenni, infatti, è avvenuto un disaccoppiamento generale delle principali religioni, che da moderate hanno assunto sempre più toni estremi, con addirittura una polarizzazione al loro interno, da cui il fenomeno della radicalizzazione. E il riavvicinamento della massa alla religione pare seguire questi binari, decisamente di segno opposto rispetto a quelli tradizionali evidenziati da Inglehart. Non si tratta inoltre solo di quella musulmana, ma appunto anche cristiana ed ebraica, con una forte influenza sui decisori politici che, a loro volta, scoprendo la portata elettorale e consensuale di questa massa religiosa, ne stanno ampiamente sfruttando le potenzialità.
A discolpa di Inglehart, possiamo affermare che l’odierno fenomeno del forte richiamo a valori religiosi da parte del potere secolare non è sempre facilmente visibile. Al contrario, è subdolo, anche se sovente traspare nelle dichiarazioni pubbliche e dai gesti di alcuni di alcuni di quei soggetti: Trump, la Bibbia e i continui riferimenti pubblici a valori religiosi; Erdogan, ripreso in preghiere collettive, Santa Sofia e altri luoghi di culto cristiano ortodosso riconvertiti in moschee; i richiami di Putin per un ritorno all’unità della chiesa ortodossa messa a rischio dagli scismatici ucraini, o per la loro difesa in Armenia contro il musulmano Azerbaijan, da cui la questione del Nagorno-Karabak, solo per citare i più evidenti e recenti. Per tutti gli altri rimane un qualcosa di intangibile ma potente, in grado di influenzare pesantemente le loro scelte politiche per lo più di sicurezza interna (Modi, Kaczynski, Orban) o perché strumento di sfogo popolare e addirittura guida per l’élite (confucianesimo per Xi Jinping).
Non si tratta più, quindi, di religioni nella loro pratica tradizionale, pacifica e non divisiva, insomma quella equilibrata e disciplinata per l’ avvicinamento dell’umano al soprannaturale. I toni ora sono decisamente più accesi, estremi e radicali, con la religione in grado di influenzare pesantemente la politica interna ma anche internazionale. Non è un mistero il peso degli evangelici cristiani nella elezione di Trump nel 2016, e già si stanno facendo supposizioni e scommesse su quanto peseranno costoro nelle imminenti elezioni presidenziali. L’espressione estrema, più fondamentalista (identitaria bianca, xenofoba e anti-abortista) di questi evangelici, e che ha ripreso vigore nell’ultimo ventennio, non a caso dopo l’11 settembre 2001, l’attacco alle Twin Towers, è arrivata al punto da influenzare scelte geopolitiche di grande peso strategico, come i rapporti fra Stati Uniti ed Israele. Non vi sarebbe la tradizionale (e laica) comunità ebraica statunitense a spingere per lo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, così come a premere per gli accordi di Abramo fra Israele, Emirati, Bahrein e Sudan. Vi sarebbero, appunto, gli evangelici, in particolare quelli riferenti a ciò che è stato definito ‘sionismo cristiano’, in evidente contraddizione al sionismo laico proveniente dall’esperienza collettivista degli insediamenti ebraici antecedenti l’istituzione dello Stato di Israele.
E i numeri di questi evangelici americani sono importanti: oltre 100 milioni (l’81% votò appunto Trump nel 2016), a cui si stanno affiancando anche frange di cattolici più conservatori, poco convinti delle scelte in politica estera di Papa Francesco, da cui i continui attriti, anche recenti fra Washington e Santa Sede (per la Cina, ultimo esempio). E la loro presenza per l’evangelizzazione, attraverso numerose Ong, con il loro intransigente fondamentalismo cristiano dalle visioni apocalittiche, è capillare in varie e vaste parti del mondo, in tutti i continenti.
Ma movimenti ecclesiali radicali, anche se di credo differente, con i relativi appoggi popolari riguardano anche Putin ed Erdogan, con livelli di radicalizzazione differenti, ma sempre importanti. Perché, di fondo, quel tipo di approccio fa sì che la teologia diventi ideologia e nel contempo emblema identitario, e la massa ritrovi così risposte concrete ed unitarie di fronte all’incertezza, alle avversità da pandemia, all’inevitabile sconvolgimento economico, presente e futuro, e così via. Ecco perché poi, anche se si tratta di regimi dittatoriali, trovano sostegno autentico dalle masse per il loro potere, oltre che una garanzia di continuità. Nell’analizzare poi fatti di terrorismo ed eversione, sempre più frequentemente mi imbatto nel ricorso a riferimenti di credo religioso di quei criminali, e non solo jihadisti. Non è un mistero che l’eversione etno-nazionalista nel mondo Occidentale – per semplificare, quella vicina all’estrema destra violenta e al neo-nazismo – faccia sovente riferimento a termini come ‘santi e discepoli’ per esaltare gli autori di stragi. Anche per loro, come per il jihadista kamikaze, esiste un martirio (non è la morte, ma essere giudicati colpevoli e scontare una lunga detenzione) che perpetua l’ideologia ed è fonte di unità e di ispirazione per altre azioni armate (il terrorista norvegese Anders Breivik docet). La radicalizzazione, che sia jihadista o di segno ideologico o religioso opposto, è semplicemente considerare sacri e non negoziabili i propri valori. Se messi in pericolo, si è disposti ad uccidere per difenderli: la fede e l’Islam, per il musulmano, da cui il jihad; l’identità etnica, razziale, o cristiana per un etno-nazionalista radicalizzato, da cui l’uccisione di immigrati, neri, ebrei o musulmani, o esponenti politici liberali.
La radicalizzazione, di qualsiasi credo religioso e colore politico, non è nient’altro che la sacralizzazione di quei valori e la chiamata alla loro difesa armata. Essa si inserisce sempre in epoche della storia in cui l’altro da sé è considerato un’anomalia e si impone perché coesistono altresì incertezza, diseguaglianza, insicurezza e paura per il proprio incerto futuro.
Da questi sentimenti scaturiscono livore, odio e violenza verso ciò che non appartiene al proprio mondo. È il risultato o, per alcuni, la sindrome da social network, laddove quelle piattaforme, al pari dell’intimo di una fede religiosa, si trasformano in recinti blindati, in questo caso al confronto pacifico, perché di fatto non c’è spazio per il dubbio che, imponendo una continua introspezione personale, possiede un suo valore salvifico. Esistono, quindi, per i radicalizzati solo certezze assolute, insindacabili.Si tratta di quelle post-verità individuali, ferme ed irrinunciabili, che vanno sovente oltre le parole scritte su un post o un tweet, e che giungono ad incitare alla violenza o a riunire milizie armate, come sta accadendo con i poll challengers del Michigan (letteralmente controllori delle operazioni ai seggi), pronti a rispondere alla chiamata in difesa di Trump se dovesse uscire con un margine risicato dal confronto con Biden il prossimo 3 novembre. Radicalismo ideologico, religioso e secolarismo, qui, per Trump come, per altri versi, per Erdogan e tanti altri, vanno dunque a braccetto. Sono le nuove religioni, in grado di attirare le masse, abbagliarle alterando la percezione della loro quotidianità con la promessa, come sempre accade con ogni fede religiosa, di una salvezza futura per tutti i credenti. O, in questi casi, per tutti i loro elettori.
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