Miti e tristi realtà attorno al Recovery Fund
di Mercedes Bresso |
Il giro d’Europa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte per promuovere la visione italiana del Recovery Fund è stato oggetto di una valanga di commenti, è difficile quindi dire qualcosa di inedito. Dunque, vorrei solo provare a mettere, come dicono i cugini francesi, l’église au milieu du village, cioè provare a capire quali sono le vere questioni in gioco.
Anzitutto c’è in gioco la possibilità per la Commissione di indebitarsi sul bilancio europeo per esigenze straordinarie. È un punto fondamentale per il futuro dell’Unione, perché insieme alle risorse fiscali proprie, rappresenta un passo avanti verso un’Unione politica. E su questo si è aperta la prima frattura fra i paesi: i nordici possono accettare un fondo straordinario, ma vogliono essere certi che non porterà verso maggiori poteri alla Commissione e al Parlamento. Non a caso, la stessa Cancelliera tedesca Angela Merkel vuole portare il potere decisionale in capo al Consiglio, cioè agli Stati, una volta di più cancellando il metodo comunitario in favore di quello intergovernativo.
Di tutti i diktat questo è il più indigesto da accettare e vorrei ricordare che ciò è vero anche per il MES: coloro che si sono opposti a farne uno strumento comunitario, bloccando la legislazione che voleva farne una sorta di fondo monetario europeo, devono sapere che il problema non sono le condizionalità ma il fatto che resti nelle mani degli Stati. Come succederà anche per il Recovery Fund visto che la Germania una volta di più sposa la tesi intergovernativa. E quindi saranno ancora gli Stati a tenere in mano le chiavi per accedere ai fondi e dunque a chiedere controlli rigorosi e soprattutto a pretendere una distribuzione che non favorisca troppo i paesi mediterranei considerati spreconi. Tra l’altro non mi farei troppe illusioni sull’entità delle risorse che spetteranno all’Italia, perché nei Paesi dell’est sta aumentando il numero di contaminati e alla fine anch’essi chiederanno di avere fondi importanti. Con il rischio che fra tempi lunghi, decisioni di distribuzione e piani rigorosi da presentare per avere i fondi, il Recovery Fund non consenta ai Paesi europei di uscire a tempo dalla crisi prodotta dalla pandemia.
Purtroppo il dialogo fra Conte e il primo ministro olandese Mark Rutte, che è stato uno degli incontri più difficili, è avvenuto fra due modi altrettanto sbagliati di intendere la partecipazione all’Unione Europea, diventati luoghi comuni e di reciproca diffidenza. Da un lato, i Paesi del sud sono presentati gli interpreti di una politica che vede l’Europa come un mero distributore di soldi; dall’altro, i Paesi del nord sono l’emblema di chi rifiuta la solidarietà, dimenticando tutti gli indebiti vantaggi che essi hanno avuto con le loro sleali politiche fiscali e con l’accesso al mercato unico, che è tanto più necessario quanto più un paese è piccolo. Qualcuno ricorda com’era l’Irlanda prima di entrare nell’Unione Europea? Il risultato sarà che si sarà persa ancora una volta l’occasione di far fare un vero passo avanti all’Unione nella sempre più dura competizione internazionale che vede la Cina e gli Stati Uniti distanziarci sempre di più.
La seconda posta in gioco in questi colloqui di Conte, ancora più importante, era la credibilità dell’Italia, che purtroppo è quella che concentra ormai su di sé l’immagine di Paese poco affidabile. Nel Club Med, infatti, Spagna, Portogallo e perfino Grecia hanno dimostrato di saper coniugare rigore nella politica economica, capacità di rilanciare la propria economia facendo le necessarie riforme e al tempo stesso, almeno per i primi due, conservando un forte profilo sociale. All’opposto l’Italia con il proprio enorme debito, ma soprattutto con il fatto di continuare da più di vent’anni ad arretrare come PIL e come capacità competitiva rispetto agli altri Paesi europei, oltre che con il pervicace rifiuto di affrontare con riforme di qualità le proprie debolezze, è diventata il principale bersaglio delle critiche contro i Paesi mediterranei. Detto fra parentesi prima o poi, e non è un vaticinio, ma un’osservazione oggettiva, toccherà anche alla Francia che, quanto ad incapacità a fare riforme e capacità nel far aumentare il proprio debito, non è molto diversa da noi. Una somiglianza che a tempi brevi verrà scoperta anche dai mercati.
L’opportunità offerta dal Recovery Fund era dunque non certo quella di apparire come i soliti noti che chiedono più soldi e senza controlli, ma piuttosto quella di presentarsi in Europa con un solido e rigoroso piano di riforme e di rilancio dei nostri settori strategici, di riforma vera della Pubblica Amministrazione, proponendo che l’Unione Europea affronti anche, unita, le proprie debolezze strategiche che avremmo potuto mettere davanti al naso dei nostri interlocutori, insieme alle proposte per riforme autentiche che permettano all’Europa di tornare a contare nel mondo. Rilanciare alla grande, insomma, puntando il dito su tutto quello che per colpa dei frugali e degli euroscettici non si può fare per rendere l’Europa “di nuovo grande”, disposti ad affrontare i nostri problemi purché tutti affrontino i propri e soprattutto perché insieme affrontiamo quelli comuni, che sono i più urgenti per il nostro futuro.
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