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Marco Travaglini

Le vicende dell’oggi e l’etica narrativa di Rigoni Stern

Aggiornamento: 5 lug 2023

di Marco Travaglini

Nel mezzo di questa pandemia che segna il punto di alto della crisi per la storia recente dell’umanità, si è portati a riflettere sulle parole di uno dei più grandi narratori contemporanei italiani, Mario Rigoni Stern (1921-2008). Nel 2002, in un’intervista concessa a Giulio Milani, si ritrovò a considerare gli effetti benefici di una crisi economica, “che prende sempre di mezzo la povera gente”, non si nascose il Sergente nella neve, “ma piuttosto che una guerra, è meglio una grande crisi per stravolgere un po’ questo mondo, per metterlo sulla strada giusta, per far capire che non è più la borsa che deve governare”. Non si può fare a meno di ripensare a questa frase, ora che il governo Draghi, dopo aver siglato l’accordo per il pubblico impiego, è orientato a ristabilire un patto d’azione con i sindacati, con i corpi intermedi della società, con i ceti produttivi, cioè a rimettere la locomotiva su quei binari che hanno – pur tra luci ed ombre – assicurato al Paese uno sviluppo e il recupero di ritardi atavici. Quasi il ritorno, dunque, a stagioni dimenticate. E qui, il discorso vira decisamente su Mario Rigoni Stern. Un ritorno che è anche un azzardo, perché parte proprio da “Stagioni”, l’ultimo libro pubblicato in vita, in cui lo scrittore di Asiago raccontava che cosa significasse per lui lo scorrere del tempo scandito dai ritmi stagionali. Dell’inverno ricordava la legna secca che brucia nelle cucine, il freddo e la neve; dell’estate rammentava i salti sui mucchi di fieno e i nidi di calabroni mentre l’autunno era stagione di rientro delle greggi, di caccia ed escursioni tra i boschi. In primavera partivano gli emigranti stagionali per la Prussia o la Boemia, ma era anche il momento del risveglio della natura e del ritorno dei rondoni, oltre che il periodo migliore per morire, come accadde al nonno di Mario, a sua madre e a lui stesso. Morire mentre rinasce la vita. Lo scrittore morì ottantaseienne il 16 giugno del 2008, dopo alcuni mesi di malattia, nel letto della sua casa di Asiago. Era un lunedì sera e per sua precisa disposizione la notizia della morte venne diffusa solo a funerali avvenuti, il giorno dopo, nella piccola chiesa del centro dell’altopiano dei Sette Comuni. C’erano la moglie Anna, i tre figli con i due nipoti e il fratello Aldo a salutarne il feretro. Poche persone, raccolte nella cappella come voleva il Sergente nella neve. Al mesto rintocco del Matìo, il campanone di Asiago, toccò l’ultimo saluto. Ora è sepolto nel cimitero a sud del paese, sotto una grande croce di marmo chiaro che lui stesso aveva voluto recuperare dalla tomba del nonno paterno Giovanni Antonio. Sulla tomba una piccola aiuola coltivata a fiori come piaceva a lui, per certi versi simile a quella della teologa e scrittrice Adriana Zarri a Crotte di Strambino, nella campagna canavesana. Ho un personale ricordo di una serata in cui parlammo di lui a Falmenta, in valle Cannobina, dialogando con uno dei suoi più grandi amici, il compositore e maestro Bepi De Marzi: quest’ultimo avanzò l’ipotesi che l’ultima dimora ad Asiago fosse un cenotafio, una tomba vuota, immaginando che le ceneri dello scrittore fossero state disperse nella steppa russa dove riposavano i suoi commilitoni dei reparti alpini che persero la vita nella tragica ritirata di Russia. Ovviamente si trattava solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. Mario Rigoni Stern nel 1973 pubblicò una raccolta di racconti intitolata “Ritorno sul Don”. Scrisse, nell’occasione: “Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita”. L’intera sua vita fu segnata dai ricordi di quella guerra, dal gelo della steppa nella sacca del Don, dal calore umano che trovò nelle isbe anche con i “nemici”. Ricordi che si mescolarono con l’amore per la sua terra, per le vicende dei montanari e la vita che si svolgeva seguendo i tempi dettati dall’orologio della natura. Nel 1938, a diciassette anni (“Sull’Altipiano, per noi ragazzi c’era un detto: o prete, o frate, o fuori con le vacche”) entrò alla Scuola Militare d’alpinismo di Aosta, quindi combatté come alpino nel battaglione Vestone in Francia, Grecia, Albania, Russia. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, rientrò a casa a piedi, dopo due anni di lager in Lituania, Slesia e Stiria il 5 maggio del 1945. Da quel momento non lasciò più il suo Altopiano dove viveva nella casa che si era costruito da solo, insieme alla moglie e ai figli. Ad Asiago lavorò al catasto comunale, mantenendo l’impiego fino al 1970, quando decide di dedicarsi completamente al lavoro di scrittore. Fu Elio Vittorini, nel 1953, a fargli pubblicare per I Gettoni di Einaudi il suo primo romanzo “Il sergente nella neve”. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1962 pubblicò il secondo, “Il bosco degli urogalli”, sempre per Einaudi. Tanti altri seguirono fino a “Stagioni”, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della scomparsa. Mario più volte affrontò l’argomento della morte, sottolineando come questa non gli incutesse paura. “La vita si sa che deve finire, ma io non vivo questa consapevolezza con angoscia” raccontò in una intervista per il suo 85esimo compleanno. “Semmai può spaventare la sofferenza fisica, perché a volte il dolore umilia, non lascia all’uomo nemmeno la possibilità di pensare. Ma è un’età, la mia, che va affrontata avendo la coscienza del limite”.


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