Le “eredità” dell’8 Settembre 1943
di Michele Ruggiero |
Il 3 settembre del 1943 a Cassibile, in provincia di Siracusa, il generale Giuseppe Castellano firmava l’armistizio con il generale Dwight D. Eisenhower. Per il governo italiano del maresciallo Pietro Badoglio vi era l’impegno di renderlo noto nei cinque giorni successivi per favorire l’operazione Avalanche che la V Armata del generale americano Mark Clark avrebbe lanciato sul continente italiano, dopo l’attraversamento dello Stretto di Messina. Sulla carta, la strategia avrebbe dovuto depotenziare anche psicologicamente l’esercito tedesco che da mesi, in concomitanza del cedimento delle forze armate italiane e soprattutto della caduta del fascismo con l’arresto di Benito Mussolini, il 25 luglio del 1943, aveva cominciato ad attraversare il Brennero e a controllare le aree nevralgiche della penisola. Come avrebbe scritto il primo ministro britannico Winston Churchill al suo ministro degli Esteri Anthony Eden, per l’Italia si sarebbe dovuto modificare anche il lessico: “in un primo tempo lo abbiamo invaso, ma, vista la collaborazione, dobbiamo considerare ogni ulteriore avanzata nella penisola una liberazione”. L’ambiguità mista a irrisolutezza di Badoglio e di re Vittorio Emanuele III, all’opposto, contribuirono a ritardare l’annuncio dell’armistizio e a trasmettere fuori sincro le conseguenti direttive degli Alti comandi militari ai reparti in Italia e fuori dai confini. Fu il caos che la memoria collettiva bollò con una data (incancellabile) e non con un nome, com’era accaduto nel 1917, con quello di Caporetto: 8 Settembre 1943. Era un mercoledì quando il maresciallo Badoglio annunciò alla radio l’armistizio, la resa di un mondo falso e corrotto, come si era rivelato il fascismo, un mondo però da cui né la Monarchia, né le classi dirigenti erano riusciti realmente a staccarsi, conservando un fondo di ambiguità e doppiezza che sarebbero costate care al Paese. Fu il crollo morale di uno Stato in fuga verso Sud per sfuggire ai tedeschi, indifferente alla sorte di centinaia di migliaia di militari che da quel momento, salvo episodi di eroismo, divennero una massa di sbandati, facile preda dei nazisti e successivamente trasferiti in campi di prigionia in Germania. Ma l’8 Settembre ci dice anche altro che trascende la viltà della Monarchia. L’8 Settembre è il paradigma di un Paese allevato e cresciuto nella menzogna e nelle rodomontate di una dittatura feroce più di quanto non dicano i numeri dei prigionieri politici, di coloro condannati al confino e di vittime, che per in un Ventennio aveva disarticolato il senso di Nazione per nutrire insieme ad un falso sé anche il concetto di Patria. Il caos generato dall’8 Settembre 1943 entrò negli interstizi delle coscienze per il superamento di quella pagina vergognosa. Dalla resa nacque la Resistenza e la lotta contro l’occupante germanico. Ma negli anni successivi, la data diventerà anche una potente leva revanscista degli eredi del Fascismo, padri, figli e nipotini della Repubblica di Salò, complici dei nazisti e delle stragi di civili e di partigiani. Paradossalmente, è proprio dall’8 Settembre che prende corpo il primo capitolo della saga che dividerà e continua a dividere gli italiani, destra e sinistra, sul concetto di Patria (chi l’ha difesa e da chi?), e sulle categorie di “bene e male”, termini che in quel preciso contesto storico non dovrebbero essere messi in discussione nella loro attribuzione e collocazione (democrazia versus nazifascismo), anche in un quadro di doverosa e sempre utile revisione storica. In Italia, però, il revisionismo storico nell’accezione più alta e nobile del termine sembra essersi appiattito a ciclo continuo sull’uso strumentale della polemica politica fine a se stessa, amplificata a getto continuo dalla destra che non trova più argini a sinistra, salvo rigurgiti imprevisti a difesa di valori morali ed etici di cui si fatica a spiegare il significato alle nuove generazioni. Sdoganata sul finire degli anni Novanta del Novecento, anche sotto lo sguardo compiacente di una parte della sinistra, con il pensionamento a Fiuggi del Movimento sociale italiano, partito continuatore del credo e dei principi mussoliniani, la destra d’ispirazione fascista è riuscita a conquistarsi uno spazio notevole di riscrittura delle vicende storiche, sia della Seconda guerra mondiale (le zone d’ombra della Resistenza), sia degli anni del dopoguerra, con una particolare attenzione rivolta al doloroso esodo giuliano-dalmata dopo l’annessione alla Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito di terre italiane da secoli. Una storia drammatica ritornata prepotentemente sotto i riflettori con le critiche inferte al rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari, forse “colpevole” di antifascismo, certamente colpevole di aver richiesto un giudizio storico sulle foibe sostenute dall’analisi dei fatti, del contesto, dei documenti e non piegato ad una visione unilaterale offerta dalla destra. In realtà, le polemiche e le divisioni sulle foibe e sull’esodo sono una costante della vita italiana dal dopoguerra, polemiche che si sono ripresentate sotto varie fogge in Parlamento come nei comizi elettorali, nel confronto tra i partiti, sui giornali e nei dibattiti tra storici, che non ha risparmiato la vita sociale in un clima politico pervaso (e ammorbato) dalla divisione del mondo, dallo scontro tra Est ed Occidente. Un contrasto che si è riverberato nelle città in cui erano ospitati i profughi dell’esodo, spesso costretti a soluzioni di fortuna, se non a vivere in autentiche baraccopoli. Uno scenario che vedeva l’Italia a metà degli anni Cinquanta ancora in mezzo al guado, in una fase di passaggio dal mondo rurale all’urbanizzazione industriale. E’ attorno alla pietà umana per la fuga di centinaia di migliaia persone che si consuma lo scontro ideologico con i fascisti del Msi che cavalcano con disinvoltura l’onda lunga e astiosa dell’anticomunismo ammantato di patriottismo, che negano le violenze commesse dalle truppe di occupazione italiane in Jugoslavia, le fucilazioni per rappresaglia contro villaggi e popolazioni inermi, i crimini del generale Mario Roatta, comandante della II armata, autore della famosa “Circolare 3C” per piegare la resistenza slava. Ordini di un generale italiane che nei contenuti sono identici a quelli dei suoi omologhi tedeschi nei paesi europei occupati. Prevale così l’obiettivo di costruire la fama di “italiani brava gente” che aderisce perfettamente al progetto di scaricare a tavolino tutte le responsabilità sull’esercito di Tito e sulla vendetta slava, indipendentemente dai fatti, dal contesto, dai documenti. Le foibe sono così la catarsi perfetta delle azioni italiane, purificate da ogni senso di colpa. Il presunto silenzio per realpolitik (il riconoscimento della leadership di Tito tra i paesi non allineati a partire dagli anni Sessanta) attorno ai morti gettati vivi nelle rughe carsiche diventa a sua volta la dimostrazione dell’innocenza italica e fascista: avremmo voluto parlare, ma non ci era concesso. Un disegno che la destra fascista e non solo hanno cercato di accreditare attraverso una sottile campagna di disinformazione, tesa a sostenere che soltanto dagli anni Duemila, e ufficialmente dal 2004, dall’istituzione del Giorno del ricordo (10 febbraio) per commemorare le vittime delle foibe, la questione avesse ricevuto il segnale di verde, l’autorizzazione a parlarne liberamente. Un modo pretestuoso per continuare a ricostruire la storia con opinioni distanti anni luce dai fatti, dal contesto e dai documenti, unici elementi titolati ad offrire una ricostruzione scientifica scevra da revisionismi pelosi.
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