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"La Resistenza riconosca l'autenticità di essere donna"

di Amelia Andreasi Bassi

La donna che in bicicletta macina chilometri nelle strade sterrate che collegano i boschi ai paesi di montagna è una partigiana. O meglio è una “staffetta” partigiana. E sono tante quelle che operano per lo più nelle valli alpine nei venti mesi di Resistenza.

Tra i principali incarichi assunti dalle donne che partecipano a quegli eventi fu certamente il più diffuso, tanto da divenire col tempo un vero e proprio luogo comune celebrato, già a partire dalla fine della guerra, da diverse opere letterarie e cinematografiche incentrate sull’esperienza resistenziale. A farne una vera e propria icona contribuì senz’altro il romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire, immortalata con la sua bicicletta nella copertina del libro e nella trasposizione cinematografica con la regia di Giuliano Montaldo e una Ingrid Thulin (nella foto) straordinariamente calata nella parte.


Gli esempi di Ada Gobetti, Bianca Guidetti Setta e Livia Laverani Donini

Ada Gobetti, nel suo Diario, si muove in bicicletta in Val di Susa, tra Susa e Bussoleno, dove il figlio Paolo si trova tra i partigiani di una delle formazioni di Giustizia e Libertà. Bianca Guidetti Serra raggiungeva Alberto Salmoni, suo futuro marito, anche lui operante in una formazione GL. L’una e l’altra insieme all’inseparabile bicicletta percorrevano quelle valli portando vestiti, pacchi, ordini da eseguire, messaggi importanti, stampa clandestina, armi e anche esplosivi. “Nerina” (nome di battaglia di Bianca Guidetti Serra) spesso lo faceva cantando e quando smetteva di farlo era il segnale della presenza di un pericolo, costituito dai posti di blocco militari nazifascisti, il cui superamento poteva costare anche la vita.

Anche Livia Laverani Donini quando prende contatto con le formazioni partigiane lo fa in bicicletta portando con sé la figlia Elisabetta e più avanti, nelle future missioni, entrambi i figli. Divide la sua presenza tra la banda partigiana, i combattimenti cui partecipa e la casa e quando, a metà del 1944, è individuata dai fascisti come responsabile tra forze della Resistenza, sale in montagna portando con sé i due figli piccolissimi.

Per queste donne come per le altre centinaia che come loro hanno preso la decisione politica di unirsi alla Resistenza si è trattato dunque di rispettare prima di tutto il proprio senso etico della vita e insieme di affermare i valori civili dell’antifascismo da cui la pur drammatica scelta trovava ragione. Una drammaticità così profonda che impedirà a molte di parlarne anche dopo decenni.

“Nella Resistenza noi ci siamo state tirate per far guerra alla guerra. Solo questo ha potuto giustificarlo. Né l’amore per l’avventura, né il bisogno di affermare il coraggio fisico, e ne abbiamo avuto tanto. Ma quello che i miei compagni chiamavano coraggio era paura”. Sono parole di Livia Laverani Donini che in quanto donna dà forza alla critica delle armi e della bellicosità.


La ricerca storica dovrebbe uscire dagli stereotipi

“Ho ripugnanza a ricordare”, come dirà a guerra finita, significa affermare che nemmeno l’amore per la Resistenza e l’orgoglio per il riscatto dal disonore fascista bastano a compensare l’angoscia di aver fatto la guerra, un’angoscia che le “toglie ancora i sonni adesso” e le fa odiare fascisti e tedeschi “per ciò che l’hanno costretta a fare. Che è stata una scelta, ovviamente, ma a caro prezzo”.

E’ legittimo pensare che nonostante il prezioso lavoro che la storiografia, e nello specifico la comunità delle storiche, in particolar modo dagli anni Settanta in qua, ha sviluppato per recuperare la memoria del ruolo delle donne nelle organizzazioni antifasciste e nella guerra di Liberazione, molto ancora rimanga da indagare.

La maggior parte delle luminose esperienze pervenuteci fin qui riguardano donne cresciute nell’antifascismo, in parte vissute in clandestinità e per questo allenate ad affrontare rischi e a muoversi secondo regole organizzative che le hanno attrezzate anche per l’azione resistenziale, per lo più appartenenti ad ambienti socio-culturali medio alti che le hanno rese anche più facili bersagli, ma che hanno anche permesso loro di trovare la via per elaborare e restituirci vissuti personali ed esperienze collettive.

Delle donne partite per sostenere la Resistenza nella guerra civile spagnola, così come di quelle rimaste in Italia nella condizione di compagne di personaggi politicamente segnalati, tacciate quindi dal fascismo come sovversive, sappiamo ancora troppo poco.

Come poco indagate sono ancora le motivazioni che hanno spinto molte delle donne cresciute nel modello patriarcale imposto dal regime fascista a disobbedire con azioni concrete e quotidiane dando protezione, nascondendo, offrendo sostentamento a chi si trovava perseguitato o impegnato direttamente a combattere l’oppressione.

Tutte quante, siano esse in Italia, al fronte spagnolo come nella Resistenza francese, nella clandestinità come nella solitudine di una vita negata o interrotta, lottarono o resistettero, a partire da ambiti privati e politici nello stesso tempo, per un’unica causa, quella dell’antifascismo.

Quella causa di libertà che, insopprimibile, allora come ora, ancora guida le donne in ogni parte del mondo.





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