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La lezione sulla verità storica di Lucio Lami, cattolico integralista

  • Vice
  • 31 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

di Vice


Il 31 marzo del 2013, una domenica di Pasqua, se ne andava per sempre, improvvisamente, all'età di 76 anni Lucio Lami, giornalista di qualità, ma la cui qualità è stata rapidamente dimenticata, nonostante le sue inchieste, i suoi libri tradotti all'estero, i premi letterari, le sue esperienze di corrispondente di guerra, memorabile il viaggio all'interno dell'Afghanistan invaso dall'Armata Rossa, le sue direzioni di quotidiani e settimanali, la sua fama riconosciuta a livello internazionale di profondo conoscitore di storia equestre.

Ma se la domanda sorge spontanea, a proposito del silenzio su Lami, non si può dire altrettanto della risposta, che segna il passo, come sempre, quando delle persone forse è scomodo anche il solo ricordo. Eppure, è sufficiente navigare nel web per attingere notizie anche circostanziate e non di circostanza sui suoi quarant'anni di giornalismo, in cui la sua penna, scoperta in primis da Oreste del Buono, si è messa al servizio dei lettori per conto di grandi editori del dopoguerra, da Edilio Rusconi a Arnoldo Mondadori e ad Angelo Rizzoli, per poi entrare nel 1974 nelle stanze del Giornale appena fondato da Indro Montanelli.

Ma il ricordo di Lami, per la sua convinta fede nell'esigenza di verità, e dunque a credere nel valore della ricerca che reclama anche il dubbio che smuove le montagne per verificare i fatti, diventa oggi più che attuale per i tempi in cui viviamo. Tempi dominati da un furore bellicista, sbilanciato sui rischi ipotetici che correrebbe l'Europa esposta all'invasione di un paese ostile, mentre si paventa strumentalmente che l'ombrello della Nato stia per chiudersi, anziché sulla costruzione di un ritorno alle storiche e abili tradizioni diplomatiche che hanno contraddistinto e accompagnato il Vecchio Continente dalla fine della Seconda guerra mondiale, garantendo la pace e la convivenza civile, privilegiando sempre la riflessione e il ragionamento, anche sofferti, alla reazione di pancia, gridata per conquistare i peggiori istinti degli interlocutori.

Lami, infatti, pur partendo da cause non sempre condivisibili, fu tra i primi a denunciare la pericolosa deriva su cui si è incamminato il giornalismo italiano e gli effetti manipolativi esercitati sull'opinione pubblica in nome dell'informazione-spettacolo. Scrive Lami nel 2010: "Per anni, l'informazione, fatta di scoop, di mille rapide esposizioni di cadaveri, di zoom su episodi cruenti e marginali, si è rifiutata di allargare lo sguardo, di mettere i fatti in prospettiva storica, di collocarli nel contesto, di classificarli tenendo conto di un complesso di fattori non traducibili in trenta secondi di filmato. Si può aver propinato quotidianamente, per mesi e mesi, un servizio sullo stesso argomento (vedasi il Kossovo), scegliendo sempre le immagini più emozionanti, senza che il pubblico sia stato messo in grado di capire. Ciò accade sempre più spesso: a volte per imperizia professionale, per autocensura, per fanatismo ideologico, per disciplina di partito, più spesso per quella deformazione professionale rappresentata dal culto per i ritmi serrati, per le immagini impressionanti e per quello scoopismo ininterrotto che è il padre della disinformazione-spettacolo e il principe degli indici d’ascolto". Aggiungeva ancora Lami, nel medesimo articolo: "La legge dell'informazione-spettacolo è semplice: 'Un reportage, che spiega e fa capire, vale infinitamente meno di un altro che non spiega e non fa capire, ma che tiene lo spettatore col fiato sospeso, incollato allo schermo'. E' il secondo tipo di 'prodotto' (così chiamano i reportages) che alza gli indici d’ascolto e che fa vincere la gara dell'audience e quindi quella per l'acquisizione della pubblicità. Corollario: chi parla all'intelligenza perde, chi parla alle viscere vince".

Dunque, ci si deve arrendere alle viscere, all'interno delle quali si dibattono in attesa di una "via di fuga" gli escrementi, oppure dare un senso alla forza maieutica che sprigiona la ragione, soprattutto nei momenti di difficoltà come quelli che viviamo, strattonati in silenzio da un Trump che delira a giorni alterni o di invadere o di bombardare qualcuno, uno Zelensky-Stranamore che demonizza chiunque si frapponga tra sé e la sua personale guerra, un Netanyahu che dispone delle vite dei Palestinesi per schiacciare Hamas, con il fine oramai visibile di occupare la Striscia di Gaza e i territori della Cisgiordania, un Erdogan che sta distruggendo anche le residue strutture democratiche ereditate dalla Repubblica di Ataturk, un Putin che approfitta di tutte le nefandezze del mondo per gonfiare a costo zero anche le sue?

Nel 1970, Lucio Lami, cattolico intransigente, ma non curiale, né ipocrita, secondo chi lo ha conosciuto, mandò in stampa il libro Isbuscenskij, l'ultima carica, romantico episodio dell'invasione dell'Unione Sovietica che ebbe protagonista il Reggimento "Savoia Cavalleria", 700 cavalieri lanciati la mattina del 24 agosto 1942 contro i carri armati con la stella rossa per rompere l'accerchiamento in cui si dibatteva la divisione "Sforzesca". Era stato un impeto d'altri tempi simile alla carica dei lancieri dell'Impero di Sua Maestà britannica a Balaklava il 25 ottobre 1854, durante la guerra di Crimea contro l'Impero russo. Ma lo ricordava soltanto. Perché a Balaklava, diversamente da Isbuscenskiyj, si era trattato di uno scontro di scervellata imprudenza tattica, esaltato dalla retorica sfrontata dell'imperialismo britannico per coprire le responsabilità di nobili comandanti. Esaltazione che avrebbe poi fatto il giro del mondo dal 1936, con il film storico La carica dei seicento, protagonisti due grandi divi dell'epoca, Errol Flynn e Olivia de Havilland, prodotto dagli americani, tratto dal poema di Lord Alfred Tennyson, con la regia di un emigrante naturalizzato yankee nato a Budapest, Michael Curtiz, infine, degno anche di attenzioni storiche in Italia per il richiamo alla spedizione del Regno di Sardegna nella coalizione anti-russa con i bersaglieri del generale Lamarmora.

Ma, spiega Lami, con la carica di Isbuscenskij "dopo cinquemila anni, la storia del combattimento a cavallo e soprattutto, per l'Italia, finiva il periodo dei combattimenti ottocenteschi, romantici e savoiardi innestati sulla tradizione delle guerre d'Indipendenza". Le pagine, scevre di apodittiche ricostruzioni, sobrie nell'uso delle testimonianze e dei diari di guerra, severe nel giudicare l'invio del Corpo di Spedizione in Russia (CSIR) accanto a Hitler "una follia sia dal punto di vista militare che da quello politico-economico", andò a coprire un vuoto storico, colmato da numerose imprecisioni e distorsioni dei fatti, che paradossalmente - e ancora oggi persiste su Wikipedia tale commento[2], sminuiva "involontariamente anche il valore della carica" che ebbe, all'opposto, il merito di salvare la vita a migliaia di soldati sbandati e pressati dall'offensiva dell'Armata rossa che difendeva il proprio Paese. Studiare, analizzare, ricostruire, verificare.

Al libro di Lami si associa un lontano precedente, ma in campo cinematografico. "L'ultima carica" era stata portata sugli schermi nel 1952 da Francesco De Robertis con il titolo "Carica eroica", in cui prevalevano sulle orme di una sensibilità del Neorealismo, attori non professionisti (straordinaria la somiglianza dell'interprete del comandante del "Savoia Cavalleria" al vero colonnello) o attori alle prime armi, come Domenico Modugno. Un film di cui il regista, ex comandante di marina, offre una lettura ambigua della guerra, schiacciata sui sacri principi e valori della Patria, ma incline a dimenticarne le origini, nello stesso tempo riluttante ad accogliere per intero la retorica militare, forse consapevole all'uscita della pellicola il mondo rischiava - come oggi - l'incendio mondiale per la guerra di Corea tra Usa e Cina.

Peraltro, "l'ultima carica", guidata dal monarchico colonnello Alessandro Bettoni conte di Cazzago, fu l'ultima contro reparti regolari, poiché cronologicamente fu il Reggimento "Cavalleggeri di Alessandria" a sguainare per ultimo le sciabole. Avvenne il 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, contro i partigiani jugoslavi. Anche in quella occasione, italiani e tedeschi erano aggressori e occupanti. E per la crudeltà esercitata nei Balcani contro quei popoli con una famigerata direttiva che sarebbe stata imitata dai nazisti, il generale Roatta, ex capo dei servizi segreti ed istigatore dell'omicidio dei fratelli Rosselli in Francia, si "guadagnò" una condanna per crimini di guerra. Mai scontata.


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