L'Europa occupata dagli Stati sempre più "né carne, né pesce"
Aggiornamento: 14 dic 2024
di Giancarlo Rapetti
Mercedes Bresso, con due recenti articoli su questo sito,[1] ha dato conto di due aspetti della politica europea. Con il primo dei due pezzi citati ha esposto con sintesi esaustiva le questioni che l’Europa ha dovuto, deve e dovrà affrontare. Con il secondo ha illustrato le dinamiche che hanno portato a conclusione la complessa vicenda della elezione della Presidente e poi della Commissione esecutiva dell’Unione. Dall’insieme dei due interventi emergono interessanti elementi, che suggeriscono ulteriori considerazioni e domande. Il cuore della questione europea è la governance, attualmente incentrata su una diarchia, in cui la Commissione propone e il Consiglio dei ministri degli Stati decide. Non va sottovalutato il ruolo della Commissione, a cui spetta comunque l’iniziativa, né quello del Parlamento, al quale la Commissione è legata da un rapporto di fiducia, e che spesso è più frizzante di quanto siamo abituati al Parlamento nazionale.
Resta però il fatto che l’Unione Europea, che istituzionalmente dovrebbe tendere ad essere una entità federale, della struttura federale non ha niente. In una struttura federale, nelle materie di competenza federale, che possono essere poche o molte, c’è una sola autorità, quella federale. Esistono motivi di speranza, o sufficiente determinazione, perché l’Europa si sviluppi in senso federale? Pochi elementi supportano questa speranza: chi ha in mente una concezione diversa, lo manifesta in modo abbastanza esplicito. Chi potrebbe essere a favore, non la propugna in modo convincente.
L'Unione vista da destra: condominio o stanza di compensazione?
Da noi, la destra al governo ha le idee abbastanza chiare: l’Europa, che si è rinunciato ad abbattere esplicitamente, è un condominio, o una stanza di compensazione, “un altro da sé”, dove andare a far valere i presunti “interessi nazionali”: come Giorgia Meloni ha presentato la questione della vice presidenza Fitto è significativo. Non ha perso tempo a sostenere le qualità di Raffaele Fitto, o che cosa di utile può apportare alla politica europea, ha sempre e solo detto che va sostenuto perché italiano e portatore ai tavoli europei dell’interesse della “nostra nazione”. E’ auspicabile e probabile che Fitto farà meglio di quanto chiesto dalla Presidente del Consiglio, ma resta il fatto che secondo Meloni l’Europa federale non è tra le opzioni previste, nemmeno concettualmente, ancor prima che fattualmente.
Tra l’altro la situazione attuale genera uno di quei paradossi non infrequenti in politica. Il famoso problema della gerarchia delle fonti normative, ovvero il fatto (da alcuni contestato) che i Regolamenti europei prevalgono sulle norme nazionali, non dovrebbe turbare i nazionalisti antifederalisti. Infatti tali norme europee sovraordinate diventano tali solo dopo che gli Stati europei, con il Consiglio dei ministri competenti in materia, le hanno approvate (di norma all’unanimità). Quindi i singoli Stati contestano, a casa propria, norme che, in sede di Unione, hanno approvato. Sembra che nessuno si scandalizzi. Il problema vero, però, è che l’Unione Europea, come tutti gli organismi viventi, se non cresce (in forza e competenze, non in numero di aderenti) e si irrobustisce, finisce per deperire ed implodere. Chissà se la strada economicista proposta da Mario Draghi con il suo Piano per la competitività sarà sufficiente.
Più Paesi, minore autorevolezza...
L’altra questione, correlata alla precedente, è quella del perimetro dell’Unione. Fino ad un certo punto, l’allargamento era necessario, per raggiungere una massa critica significativa. Con l’estendersi degli ampliamenti la disomogeneità dell’entità europea è cresciuta e con essa i problemi. E paradossali differenze: l’Europa a 27 ha 447 milioni di abitanti, la zona euro 350 milioni. Come si fa a chiamare Unione una entità in cui quasi 100 milioni di persone, distribuite in sette stati, non adottano l’unico strumento comune, cioè la moneta unica? In più: ci sono nove paesi candidati e un potenziale candidato. Se entrassero tutti, avremmo una estremizzazione delle differenze e l’impossibilità definitiva di diventare una struttura federale. Si potrebbe obiettare: ma come rispondiamo “al grido di dolore che da tante parti del mondo si leva verso di noi”? Come rispondiamo alle aspettative degli Ucraini e dei Georgiani che sventolano le bandiere azzurre con le dodici stelle? Se vogliamo essere concreti, dobbiamo rispondere rafforzando l’Unione Europea, facendola stare sulla scena mondiale come un soggetto capace, potente e autorevole quanto gli Stati Uniti d’America. L’aspirazione di molti popoli, nel mentre, può essere soddisfatta facendoli entrare nella comunità dell’Occidente, attraverso accordi di libero scambio, di difesa (la NATO come ombrello vale molto di più dell’Europa attuale), se non addirittura con la famosa “Onu delle democrazie” di pannelliana memoria.
L'incognita turca
Tra i paesi candidati, poi, c’è anche la Turchia. Tralascio (i tempi cambiano) che se alle elementari avessi scritto che la Turchia è in Europa, mi avrebbero segnato errore blu. Una dittatura (copyright del già citato Draghi), per di più islamista, che sarebbe lo stato più popoloso è più armato dell’Unione, non potrebbe non avere un effetto destabilizzante. Attualmente la Turchia sembra più interessata ai Brics che all’Europa, ma resta un paradosso che mantenga lo status di paese candidato. Ritornando agli attuali 27, è possibile, secondo i trattati, che alcuni paesi accelerino di comune accordo su alcune materie, ma si tratta di meccanismi assai complessi e non chiari negli effetti: e le procedure europee, che già non brillano per linearità, non ne trarrebbero beneficio.
Un bel nodo gordiano, che non possiamo tagliare con la spada di Alessandro, perché dobbiamo conservare i fili. Quelle che precedono non sono risposte, sono domande. Le risposte possono venire da un serio confronto al quale il mondo politico nostrano non sembra particolarmente interessato. Eppure, questo va concesso, sono domande ineludibili.
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