L'emendamento è un po' Acerbo
- Menandro
- 4 apr
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Proposta di eliminare il ballottaggio alle elezioni comunali
di Menandro
Riscrivere la forma di governo degli enti locali con un emendamento a un decreto legge che fissa la data delle elezioni è gravissimo. Una forzatura che non ha precedenti e che viola i più fondamentali principi che sovraintendono alla definizione degli assetti istituzionali. Un emendamento di tale portata, che nel merito mortifica il principio di rappresentatività consentendo a una minoranza del 40% di trasformarsi in una consistente maggioranza, deve essere dichiarato inammissibile o ritirato come già avvenne nel marzo 2023". A bacchettare senza appello l'emendamento proposto dal centro destra, che occupa spazio oggi, 4 aprile, su agenzie e quotidiani, è stato per primo il capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali Andrea Giorgis, senatore, professore ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Torino, quindi studioso che sguazza con la facilità di un me un pesce nelle acque non sempre limpidissime di leggi e regolamenti. A Giorgis, sono seguiti i commenti della segretaria del Pd Elly Schlein, poi del senatore Francesco Boccia, presidente del gruppo Pd a Palazzo Madama. La prima ha denunciato il tentativo del centro destra di "riscrivere le regole democratiche" a suo vantaggio, abolendo il ballottaggio per l'elezione del sindaco nei Comuni sopra i 15mila abitanti, l'altro ha parlato di "una dichiarazione di guerra verso le opposizioni" ed ha chiesto l'intervento del presidente Ignazio La Russa "per riportare il confronto parlamentare all'interno del perimetro del rispetto democratico". Sollecito cui il presidente del Senato ha replicato con un diplomatico "è un problema che va esaminato, vedremo se è compatibile con un decreto o no. Sul contenuto non mi scandalizzo, sulla modalità tutto sarà fatto secondo le regole e sono pronto ad ascoltare le obiezioni che vengono dalle opposizioni".
Ora, se l'iniziativa del centro destra ha destato clamore, ma non scandalo nella seconda carica dello Stato e fondatore di Fratelli d'Italia, ciò non deve stupire, perché si accomoda in tutte le sue pieghe nel Dna degli eredi del Movimento sociale e, prima ancora, del Partito Nazionale Fascista, che dalla marcia su Roma del 28 ottobre 1922 cominciò a scalare rapidamente lo Stato con la legalità delle leggi. In primis con la legge elettorale del 1923, ritagliata su misura per consegnare le chiavi del potere nelle mani di Benito Mussolini, anche se con la "piccola", ma decisiva spinta delle violenze delle squadracce nere pre-elettorali. Era la famosa legge Acerbo, partorita dalla fervida mente legislativa del deputato Giacomo Acerbo, classe 1888, da Loreto Aprutino, fertile terra d'Abruzzo, volontario e medagliato nella Prima guerra mondiale, monarchico fino al midollo spinale, mussoliniano ma non della prima ora, tanto da votare - ironia della sorte - contro il futuro Duce alla prima occasione come all'ultima, nella riunione del Gran Consiglio del fascismo, in quel fatidico 25 luglio 1943, che era anche il compleanno dei suoi 55 anni.
Ad Acerbo si deve appunto il disegno di legge approvato dal Parlamento il 18 novembre del 1923 derivato ieri, come oggi, dall'esigenza della stabilità politica, più volte richiamata e reclamata dalla stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni (e anche dalla sinistra), secondo una prassi che ha elevato lo spirito matematico a vestale della democrazia (sic!). All'epoca, ieri come oggi, le opposizioni insorsero, sottolineando la caratura autoreferenziale della legge che favoriva un percorso autoritario, mentre a urne chiuse, Giacomo Matteotti , denunciava il clima intimidatorio in cui si erano svolte le elezioni, pagando quel suo coraggio con la vita. Da notare che all'epoca, ma confidiamo l'opposto per i destini democratici dell'Italia, il governo mise la mordacchia alle opposizioni ponendo la fiducia in Parlamento, sotto l'occhio benevolo di re Vittorio Emanuele III.
La legge Acerbo prevedeva che il partito (o la lista) conquistasse due terzi dei seggi superata la soglia del 25 per cento. Il 6 aprile del 1924, il Listone che mescolava fascisti, ex popolari, conservatori e liberali ottenne il 60,9 per cento. Il che, per alcuni versi, persino giustificava il premio di maggioranza, se non fosse che la violenza conosciuta dal Paese inficiava, come già ricordato, la natura democratica delle elezioni.
Si potrà obiettare che oggi si è anni luce distanti da quel clima, che non si vedono all'orizzonte né bande di prezzolati picchiatori potenzialmente in grado di inibire ai seggi la volontà degli elettori, né liste di proscrizione pubbliche per favorire (ulteriormente) le percentuali di astensionismo. Vero, ma non del tutto. In Italia, come nel mondo, si rafforza ogni giorno un clima di insicurezza (guerre, crisi economica, disoccupazione giovanile, sfruttamento, esasperazione nei rapporti interpersonali, criminalità) che acuisce nella mente dei cittadini l'illusione che ci si possa proteggere dalla precarietà della vita delegando il potere nelle mani di pochi da raggiungere, possibilmente in fretta, senza troppi passaggi o verifiche democratiche.
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