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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. L'insicurezza patologica dei talebani

di Germana Tappero Merlo


L’assillo dei talebani afgani è la “sicurezza”. Dopo più di un anno dal loro ritorno al potere (15 agosto 2021), da quel change, il cambiamento, come definita localmente - in lingua inglese per farsi capire dagli osservatori stranieri in visita - la partenza degli americani e alleati, vissuta come una vera e propria liberazione, il loro mondo e la totalità dei loro affanni sembrano ruotare attorno a questa parola: sicurezza alimentare e igienica, sicurezza economica e monetaria, sicurezza contro i nemici esterni ma anche quelli, e tanti, interni, sicurezza del giusto rispetto delle leggi islamiche. In pratica, sicurezza di garantire una lunga vita all’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Quindi, di fatto, un gravido senso di oppressiva insicurezza sta intossicando il governo talebano afghano. E ne ha ben ragione.

Darwinismo alimentare

La drammatica situazione economica (a fronte di salari invariati, per chi ancora ce l’ha, il prezzo della farina è raddoppiato, quello della benzina triplicato) e le pessime condizioni di vita della popolazione, alle porte di un lungo e notoriamente rigido inverno per quella regione, dopo un’estate di siccità e carestia, con asset finanziari governativi bloccati nelle banche statunitensi ed europee (all’incirca 9,5 miliardi di dollari), la crisi di rifornimenti alimentari e di medicinali per via della guerra in Ucraina e le sanzioni imposte internazionalmente all’Afghanistan talebano, non fanno sperare in tempi facili per quella gente. La situazione è così drammatica che, stando a reportage al seguito di organismi quali Intersos, parecchie famiglie afghane, molte delle quali con più di 5 bambini, sono consapevoli che nei prossimi gelidi mesi il più piccolo o il più debole fra quelli non sopravviverà al freddo, alla fame, agli stenti, alla difesa del poco bestiame rimasto[1].

E il tono con cui ne parlano mostra non solo rassegnazione, ma quel disincanto del mondo, quell’Entzauberung der Welt di cui parlava Max Weber, dove tutto perde di senso, e quindi anche la morte non ne ha più e dove ognuno, quel senso, deve procurarselo individualmente, facendosene una ragione. Come l’essere donna, nel Paese dei talebani: è l’invisibilità, anche della propria dignità, ammantata nel burqa, destinata a una scolarizzazione basica, nessun lavoro (solo nella sanità), proibito l’accesso ad uno sport, con il solo dovere di fare figli e, ora, tanta elemosina, e dove la corporeità vale meno di un pacco o di una valigia se, preso un taxi, una donna deve viaggiare nel bagagliaio e lasciare i suoi averi prender posto sui sedili all’interno solo perché al volante non vi è un uomo di famiglia.


Il "rigore" dell'Occidente e gli interessi di Cina e Russia

Anche se la comunità internazionale ripete di non potersi permettere l’ennesima catastrofe umanitaria, di fatto, nessuno molla. Tutti fermi, coerentemente, demagogicamente e cinicamente saldi nel voler imporre ai talebani il rispetto prima di tutto dei sacri principi di difesa dei diritti umani (donne e giustizia), e poi, forse, e solo quando quel governo avrà reciso realmente i suoi legami con il terrorismo di al-Qaeda – quindi mai, tranquilli! – le Cancellerie occidentali garantiscono che arriveranno il riconoscimento di quel regime e, in ultimo, ma proprio alla fine, l’avvio di aiuti umanitari ad una popolazione, che già ora, sappiatelo, è allo stremo. In pratica, la guerra dei valori dell’Occidente contro il regime talebano è solo una discesa agli inferi di quella popolazione, con un’uscita dai tempi lunghissimi, pressoché biblici, colma di sofferenze per un’umanità tradita, anche e soprattutto dall’Occidente.

Ma a Kabul lo sanno perfettamente e non si attendono aiuti da questa parte del mondo; e poi perché Cina e Russia non si pongono certo scrupoli a intervenire. La prima per interessi pragmaticamente economici, e la seconda per quella sorta di zelo a difendere le sue tre ex repubbliche, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, che confinano con l’Afghanistan. Perché, per quanto concentrato sull’Ucraina, Putin non può e non vuole permettere minacce dirette dall’ingerenza di gruppi islamisti (in particolare l’IS-KP, lo Stato Islamico della Provincia del Khorasan, acerrimo nemico dei talebani e di Mosca, per via anche delle vicende siriane) in territori che considera affini perché russofoni o russofili, e per questo elementi strategici da salvaguardare per il suo progetto di multilateralismo ed il rilancio di influenza politica ed economica della sua Novorossia.


Indifferenza e cinica miopia

Non è un caso, infatti, che tutti gli sforzi che stanno compiendo i vertici talebani afghani è quella di ottenere il riconoscimento internazionale, dimostrando che, di fatto, l’Afghanistan è uno Stato di diritto, anche se è sharia, ed è sicuro. Un Paese, insomma, a cui dare credibilità e permettergli la rinascita dopo l’handover, l’avvicendamento, e quel passaggio di consegne dell’agosto 2021 che è stato per gli Usa il chiudere la questione afghana e la lotta al terrorismo, che da lì è partito nel 2001, a fronte tuttavia di minime rassicurazioni. Un passaggio di consegne avviato da Obama, controfirmato da Trump ed eseguito, malissimo, da Biden, e dopo il quale, da parte dell’Occidente, pare sia calato il sipario su quella terra e il suo destino, al pari di una vergognosa, cattiva azione di famiglia e, come tale, destinata ad essere trattata con ritrosia.

Sono sempre più scarne, infatti, le notizie che vengono diffuse in Occidente su quel Paese, anche sugli attentati che ne flagellano la gente, come l’ultimo, il 30 novembre [2], in una madrasa, con 15 morti e circa una trentina di feriti, mentre l’attenzione dei media nostrani andava esclusivamente su un attacco parallelo, in Pakistan, con 3 morti e alcuni feriti. Il primo, per mano dell’IS-KP, contro i talebani afghani; il secondo da parte del gruppo antagonista, il TTP, i Talebani pakistani contro il proprio governo. Ma sull’Afghanistan sembra calare il silenzio, appunto come una vergogna per un membro di famiglia, di cui si spera di perdere presto le tracce. Ecco la tanta, stolta e guercia omertà di questa parte di mondo su quanto sta avvenendo ora laggiù.


Guerra intraislamica e Resistenza

E’ noto che si sta consumando una guerra intraislamica per il controllo della regione AfPak fra gruppi estremi, dalla medesima dottrina islamista radicale, talebani contro IS-KP: ma non è una questione ideologica – entrambi mirano ad uno Stato, Emirato o Califfato, Islamico – quanto piuttosto strategica. E se per un momento si tralasciano le ambizioni regionali che spingono l’IS-KP a far sparire il modello talebano dal Centro Asia a favore di un proprio Califfato con marchio IS[3], si comprende come quest’ultimo non sia il solo responsabile della violenza in Afghanistan.

Vi è una resistenza a nord, nel Panjshir composta da oltre una ventina di gruppi di opposizione sia ai talebani che all’IS-KP, sui quali spicca quello di Ahmad Massoud - ora rifugiato per sicurezza in Tajikistan e figlio del mitico “Leone del Panjshir” assassinato nel 2001 - che accusano i talebani di pulizia etnica, crimini di guerra e di voler trasformare quel paese in un hub internazionale del terrore. Da qui la loro richiesta di armi e finanziamenti all’Occidente per continuare nella loro resistenza contro il regime di Kabul. Ma appunto, l’Occidente sembra voler aver chiuso con quel tipo di guerre al terrorismo islamista, e se c’è una resistenza da sostenere, ad oltranza, è quella dell’Ucraina, per cui le richieste di Massoud e dei partigiani afghani di varia estrazione, cadono nel vuoto.


Kabul, la farsa delle telecamere a circuito chiuso

Ma è da questi gruppi di oppositori interni e dai nemici regionali, come l’IS-KP, che arriva l’ossessione talebana per la sicurezza, con provvedimenti che rasentano il farsesco come l’installazione, già avvenuta, di oltre 2mila telecamere a circuito chiuso, imposte dal governo ma a spese dei privati in alcuni distretti di Kabul e la richiesta per ogni singola abitazione di installarne, e sempre a proprie spese, al fine di ridurre crimini e terrorismo. Non sono state sollevate nemmeno questioni di privacy, ben sapendo che è un tentativo del governo di controllare la popolazione contro cui è difficile opporre una qualsivoglia forma di opposizione. Ma vi sono gli alti costi per gran parte di quei cittadini, con la farsa data dal fatto che difficilmente le telecamere possono operare se, come accade da mesi in vaste zone della capitale, non c’è nemmeno l’elettricità.

Un altro giro di vite anche per l’ossessione circa una maggior sicurezza è rappresentato dalla decisione del leader supremo dei talebani, Akhundzada, presa nelle settimane scorse, di far applicare pienamente la sharia e le sue punizioni, incluse le mutilazioni, fustigazioni ed esecuzioni, anche retroattivamente. In pratica, un riesame dei crimini passati, quelli rientranti nell’Hudud, per cui sono richieste prove incontrovertibili, e quelli Qisas, per cui è prevista la variante islamica della legge “occhio per occhio” anche se, in cambio di un’amputazione di un arto, la fustigazione o la vita stessa del reo, bastano il perdono dei famigliari o delle parti offese, oppure un risarcimento in denaro.

Meno grano, più papavero...

Il rigore giudiziario per sharia e sicurezza riguarda anche la produzione dell’oppio che, si ricorda, in Afghanistan copre l’80% della domanda mondiale. Già ad aprile, il governo talebano aveva vietato la coltivazione del papavero. Tuttavia, stando ad un rapporto delle Nazioni Unite, la produzione non è scesa, anzi è cresciuta di un terzo (dall’agosto 2021) in quanto quel divieto, di fatto ha triplicato il prezzo del papavero al punto da diventare più redditizio per i contadini che, già colpiti dalla crisi economica, hanno così sottratto i propri campi al grano in favore di quel fiore, linfa di morfina ed eroina. In pratica, leggi del libero mercato contro leggi islamiche, 1 a 0. Anche qui, però solo illusione di ricchezza, dato che l’inflazione sui prezzi alimentari è cresciuta del 35%, per cui i guadagni della vendita dell’oppio, per quegli agricoltori, non si sono trasformati in un loro maggior potere d’acquisto.

Nonostante questa caotica e incerta situazione, un certi qual senso di sicurezza è comunque percepito, molto di più rispetto a prima del ritorno dei talebani se, come affermano molti afghani, la “pacificazione” imposta con il loro arrivo ha posto fine allo stato di guerra permanente, e “non si sentono più i droni americani ronzare in cielo”, così come non ci sono più attacchi della guerriglia talebana. Ma se si fa notare che vi sono attentati e il governo è quindi sotto attacco da nemici interni ed esterni, allora, quegli stessi uomini, alzano le spalle e sorridono, a riprova che “quando credi di aver finalmente capito l’Afghanistan, allora vuol dire che non l’hai capito”. O forse, la loro, è solo paura di svelarsi, a conferma di un loro inconscio approccio weberiano dove, avendone messo in discussione le vecchie credenze e i valori, il loro mondo è stato reso disincantato.


Note [1] E. Albinati, F. D’Aloja, I cocci dell’Afghanistan, Corriere della Sera -La Lettura, 20/11/2022. [2] https://www.laportadivetro.com/post/ultima-ora-afghanistan-potente-esplosione-in-scuola-coranica-almeno-15-morti

[3] https://www.laportadivetro.com/post/l-editoriale-della-domenica-afghanistan

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